L’Italia fatica a spendere i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza eppure dalla politica si solleva la richiesta di “un nuovo Recovery”. Da ultimo lo ha invocato il ministro della Salute e segretario di Articolo 1, Roberto Speranza. Commentando la rielezione di Macron, ha detto che «con Francia e Germania si potrà promuovere una nuova politica espansiva» e disegnare «un intervento che possa mitigare gli effetti del carovita». Come? Riducendo i prezzi dell’energia, adottando politiche di «regolazione dei prezzi» e «se necessario potremo toccare ancora gli extra profitti».
All’apparenza può apparire un mero minestrone di slogan – e forse lo è. Ma non si può non notare la sempre maggiore frequenza con cui i nostri leader politici pretendono che l’intervento eccezionale di Next Generation EU, disegnato per promuovere la ripresa dopo la crisi del Covid-19, entri a far parte degli strumenti ordinari del bilancio europeo. Ci sono almeno tre problemi in questo approccio.
Il primo è che Next Generation EU è stato il frutto di un tribolato compromesso tra i Paesi del nord, tradizionalmente più attenti al rigore dei conti, e quelli del sud. Proprio l’Italia era ed è l’osservato speciale: il maggior beneficiario dei fondi Ue, uno dei sette che hanno attivato la linea dei prestiti oltre a quella del finanziamento a fondo perduto, uno dei tre che hanno tirato interamente le somme disponibili, e forse l’unico a integrare con 30 miliardi di risorse nazionali. Al momento non stiamo dando una grande prova di noi: non solo l’allocazione dei denari europei è più che discutibile (altro che debito buono), ma già si cominciano a vedere le difficoltà a far funzionare la macchina e il tentativo furbetto di utilizzare i soldi per finalità diverse da quelle pattuite in sede europea.
Secondariamente, il denaro pubblico non cresce sugli alberi: esce dalle tasche dei cittadini presenti (attraverso le tasse) e futuri (il debito). Chiedere un potenziamento del bilancio comune senza mettere in discussione il livello di spesa nazionale significa o presupporre un incremento strutturale della pressione fiscale complessiva, dando peraltro per scontato che ci sarà un flusso finanziario costante a favore dell’Italia. Ora, poiché in Europa i fondi scorrono dai Paesi ad alto reddito verso quelli a basso Pil pro capite, ciò equivale ad accettare come un fatto della vita che l’Italia sia destinata a restare nel ghetto dei Paesi poveri, non solo senza la speranza di uscirne, ma addirittura senza l’ambizione di farlo.
Infine, la pretesa di utilizzare soldi e regole europee per tenere sotto controllo i prezzi dell’energia è non solo fallimentare – perché non può eliminare le cause degli alti prezzi, cioè la scarsità e l’incertezza – ma è anche sbagliata e contraddittoria. Non si fa altro che parlare di transizione ecologica e dell’esigenza di superare i combustibili fossili: ebbene, adesso che i segnali di mercato ci spingono in quella direzione sembriamo pentirci di quel che abbiamo per anni dipinto come la terra promessa della liberazione verde. Forse questo dovrebbe aiutarci a capire che le politiche per la decarbonizzazione vanno concepite in modo meno superficiale e più attento ai loro costi sociali e all’effettiva sostituibilità delle fonti tradizionali; ma non può indurci ad adottare permanentemente politiche di spesa che sono economicamente e ambientalmente insostenibili.
Certo, dovremmo anche interrogarci sullo stato del dibattito di un Paese che, periodicamente, si trova in una situazione drammatica a causa di scelte passate e che ogni volta pensa che la soluzione stia nell’elemosinare soldi altrui. Il problema più profondo, insomma, non sta nel merito della proposta di Speranza, ma nel fatto che essa sia nella sostanza condivisa da politici di destra e di sinistra e che quindi si sia costretti a commentarla.