La rivelazione dirompente della bozza di sentenza della Corte Suprema americana sulla possibile revoca del diritto costituzionale all’aborto, che verrebbe quindi lasciato ai singoli stati, ha lasciato degli strascichi politici non da poco. Perché va bene l’inflazione, il caro benzina o l’economia che ristagna o l’impopolarità del presidente Joe Biden. Nulla però motiva la base come una guerra culturale. Per giunta non su temi oscuri come la presunta teoria del gender o la Critical Race Theory, che in pochi fuori dal ristretto circolo degli addetti ai lavori hanno capito. L’aborto è la madre di tutti gli scontri tra il campo conservatore e quello progressista, con le due definizioni più calzanti: rispettivamente pro life e pro choice.
Sin dagli anni ’50, i liberal hanno combattuto per la libertà delle donne di scegliere se interrompere o meno la gravidanza in piena sicurezza, mentre i pro-vita sostenevano i diritti della persona sin dal concepimento. Difficile dire dove sia il giusto e non è nemmeno il tema di questo articolo. Il tema è che la sentenza spaccherebbe ancora di più l’America a metà riportando in auge una giurisprudenza prevalente un centinaio di anni fa.
Quindi eccoci alle conseguenze politiche. Su Twitter, il dito più veloce appartiene forse a un oscuro candidato senatore in Arkansas, Dan Whitfield. Si tratta di un commento su quanto affermato da Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, giudici nominati da Donald Trump alla Corte Suprema. Di fatto, «hanno mentito».
Siccome i colloqui di fronte alla Commissione avvengono sotto giuramento, mentire costituirebbe spergiuro, un reato che in teoria potrebbe condurre all’impeachment. Vediamo cosa hanno detto. Gorsuch, dopo essere stato incalzato dal senatore dem Dick Durbin ha affermato: «Sì, la accetto come legge nazionale. Si tratta di un precedente consolidato». L’anno successivo Brett Kavanaugh ha rimarcato in un colloquio privato con la senatrice Susan Collins che la sentenza Roe era «una legge definitiva», ma in audizione ha detto che «si sarebbe attenuto ai precedenti». Invece Amy Coney Barrett nel 2020, con molta onestà, disse che Roe non costituiva un «superprecedente» inviolabile. Il suo voto, quindi, sarebbe coerente con quanto affermato.
Per i democratici è il tanto atteso motivo per chiamare gli elettori alle urne. Come abbiamo accennato prima, la motivazione stava scarseggiando: Joe Biden non è certo un motivatore, apparendo sempre più senile e affaticato. La possibilità invece che ci sia bisogno di una legge con cui sigillare i diritti a livello federale, cosa che Barack Obama non fece dicendo nell’aprile 2009 che la questione era troppo «divisiva», anzi, nel novembre 2009, una volta approvata la riforma sanitaria alla Camera, disse che «i soldi del governo federale non sarebbero andati a finanziare l’aborto».
Lo stesso Joe Biden ha avuto un’evoluzione sul tema: passando dal 1982, quando voleva votare un emendamento costituzionale che superasse la Roe, fino a oggi, quando ha affermato che si tratterebbe di un diritto fondamentale.
Sul fronte opposto, invece, c’è la difesa della vita dal concepimento, come abbiamo detto. Difficile però che gli Stati che hanno approvato leggi restrittive come Texas, Florida e Oklahoma siano contendibili. Cosa penseranno quei moderati repubblicani che, pur non essendo pro choice, preferirebbero soluzioni più sfumate sulla questione? Una di queste è la senatrice Susan Collins, che abbiamo citato. L’altra è la senatrice Lisa Murkowski, che ha votato per confermare Gorsuch ma non Kavanaugh proprio per le sue posizioni sull’aborto. Questa bozza ha scritto in una nota «scuote la sua fiducia nella Corte».
Infine, i progressisti, che promuovono un vago ampliamento della Corte, simile a quanto tentato da Franklin Delano Roosevelt nel 1937, quando una maggioranza conservatrice limitava fortemente la sua azione di governo eliminando per decreto molti programmi del New Deal. Difficile ottenere una maggioranza anche perché aprirebbe la porta a progressive infornate di giudici. Servirebbe un emendamento costituzionale, approvato in doppia lettura dal Congresso e da due terzi degli Stati, per introdurre qualcosa di meno controverso, come un mandato a termine di 18 anni, proposto dal think tank progressista Center for American Progress.
Quindi, quanti voti porterà questo? Secondo la commentatrice legale Sarah Isgur forse non molti: del resto non è bastato al dem Terry McAuliffe per battere il suo avversario repubblicano Glenn Youngkin lo scorso novembre. Adesso però le cose sono cambiate. E i governatori saranno chiamati a prendere posizione.