Cosa ci faceva Anna Politkovskaja, il 16 agosto del 2001, in un fiordo norvegese, anzi per la precisione nel cimitero di un fiordo? La risposta è incisa sulla lapide davanti alla quale si ferma in raccoglimento, insieme a una vecchia del luogo: «Dod Tsjetsjenia. 17.12.1996». «Morta in Cecenia». «Ingeborg Foss, infermiera norvegese di quarantadue anni residente a Molde e che da Molde – placida cittadina sull’Atlantico – era partita il 4 dicembre del 1996, è morta a Starye Atagi, Cecenia, il 17 dello stesso mese, nell’ospedale che aveva messo in piedi con altri cinque fra dottori e infermiere. Dopo dieci giorni di missione con la Croce Rossa».
Ingeborg, racconta la madre Sigrid, ottantaduenne, era già stata in Nicaragua e in Pakistan. Quando le hanno chiesto di andare in Bosnia ha rifiutato, «Non posso. Mia madre è anziana». Per la Cecenia invece ha detto sì, perché quelli della Croce Rossa le assicuravano che non c’era pericolo. Il corpo di sua figlia, Sigrid se lo è visto restituire su una barella, portata da un collega medico. Nel 1997 l’allora presidente ceceno Maschadov le ha conferito la massima onorificenza del paese caucasico. Ma nessuna inchiesta, in Russia o altrove, ha mai fatto chiarezza sulle circostanze della sua morte.
Nell’accomiatarsi da Sigrid, Anna riflette: «Continuate a credere che il mondo è grande? E che se da qualche parte si combatte, da un’altra non se ne sentano le conseguenze?… La disgrazia dei nostri giorni è che questa verità banalissima e vecchia come il mondo va ancora dimostrata come se fosse cosa di ieri. L’Europa non ha fatto una piega né per la modesta tomba di Molde, né per le migliaia di tombe in territorio ceceno. L’Europa continua a dormire, come se non fosse in terra d’Europa che si combatte da ventitré mesi, ormai… Eppure la Cecenia è parte integrante – e a pieno diritto – del Vecchio Continente».
Se questo è vero nell’agosto del 2001, lo sarà ancor di più un mese dopo, quando tutta l’angoscia del pianeta si coagulerà intorno alle Twin Towers di New York, incenerite dalla furia del terrorismo islamista. E anche se gli attentatori non vengono del Caucaso settentrionale, diventerà sempre più difficile distinguere tra musulmani buoni e cattivi. Tanto che Vladimir Putin, da due anni insediato al Cremlino, avrà buon gioco a presentare la sua macelleria di massa come una benemerita operazione di bonifica in nome e per conto del mondo civilizzato.
Soprattutto dopo la strage nella scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord, il 1 settembre del 2004, non ci saranno più patrioti ceceni da combattere, soltanto terroristi da annientare. La guerra si concluderà cinque anni dopo, con la fulgida vittoria dell’armata rossa. Bilancio finale tra i cento e i centocinquantamila civili morti, per un paese che oggi conta un milione e mezzo di abitanti, trentamila bambini mutilati, un numero imprecisato di profughi. E di Grozny, la capitale, non resta in piedi neanche un mattone.
Quanto all’Europa, rimane voltata dall’altra parte. Politkovskaja denuncia l’esistenza di un doppio standard sul piano dei diritti umani. Per cosa è morta Ingeborg Foss? Per i valori in cui era stata educata nella libera Norvegia, e che dovrebbero rappresentare i fondamenti della Ue. Purtroppo, scrive Anna, «di fatto l’Europa si è rassegnata all’esistenza di un territorio in cui si può fare ciò che si vuole impunemente…Niente proteste, niente boicottaggi nei confronti dei leader russi e – inconcepibile riguardo al resto d’Europa – tolleranza per omicidi, linciaggi, persecuzioni e, soprattutto, per la sanzione della responsabilità collettiva di un gruppo etnico rispetto a quanto compiuto da alcuni suoi membri». E se non è nazismo questo, l’essenza stessa del nazismo (criminalizzazione di un altro popolo, e divinizzazione del proprio), cos’altro è il nazismo? Qualche svastica tatuata sul collo o sventolata allo stadio? Il saluto a braccio teso di qualche bullo ignorante? In Cecenia, il giovane Putin (era stato nominato primo ministro della Federazione russa nel 1999, a soli 47 anni), ha fatto lucidamente, scientificamente, le prove generali della “denazificazione” di stampo nazista che oggi tenta di ripetere in Ucraina.
E Politkovskaja, in qualche modo, lo aveva previsto (le pagine dell’eroica giornalista, assassinata nel 2006, sono tratte dal libro postumo Per questo, edito in Italia da Adelphi, che raccoglie i suoi articoli apparsi sulla Novaja Gazeta insieme a testi ancora inediti, appunti personali e testimonianze). Si poteva fermare il dittatore prima che lo diventasse, e prima che la sua ingordigia espansionistica minacciasse altri stati sovrani? Colpisce l’insistenza di Anna sullo strabismo degli europei, perché ribalta i luoghi comuni della retorica pacifista e neutralista antiamericana: dove eravate, nel gennaio del 1991, quando Bush Senior bombardava Baghdad? E nel 1999, nei giorni dei raid della Nato su Belgrado? Perché non avete mosso un dito, nel 2003, davanti all’invasione e alla distruzione dell’Iraq da parte di Bush Jr?
Beh, a essere onesti qualche ditino si è mosso. Tanto per fare un esempio, il 15 febbraio 2003 furono centodieci milioni, in seicento città del mondo, a scendere in piazza contro la guerra “imperialista” americana. Tre milioni solo a Roma, con Piazza San Giovanni che esplodeva, la più grande manifestazione pacifista della storia secondo il Guinness dei primati (al secondo posto Madrid con un milione e mezzo di persone). Notare che nel 2003 Facebook e Twitter dovevano ancora nascere, la mobilitazione avveniva in modo artigianale, con il tam tam delle radio popolari, dei sindacati, dei giornali di sinistra come il Manifesto, o attraverso i cellulari dei militanti. Nella sfilata ai Fori Imperiali, in mezzo a una marea di striscioni arcobaleno, si distingueva un compagno di Rifondazione con il faccione di Lenin stampato sulla T-shirt e il colbacco in testa.
Non ricordo mobilitazioni simili per la guerra in Cecenia: forse i miei neuroni con l’età si stanno un po’ ossidando, ma ho paura di non sbagliare. Ha ragione Anna Politkovskaja: l’Europa si è dimenticata di un frammento d’Europa, sbriciolato dalle bombe termobariche di un ex agente del Kgb con ambizioni imperialistiche. Ha deciso che per il quieto vivere fosse meglio abbandonarlo al suo destino. Tanto, come diceva allora un corrispondente della tv di stato norvegese «la Russia fa storia a sé», lì «i criminali di guerra non sono tanto criminali» e noi non ci possiamo fare niente. Mica pretenderete di cambiare l’anima russa…
Nel libro c’è un articolo che Anna stava scrivendo prima di venire uccisa, il 7 ottobre 2006. Riguarda le torture in Cecenia: l’Abu Ghraib, la Guantanamo dei russi. Leggere queste righe mette i brividi: «Ho davanti ogni giorno decine di cartelle. Sono le copie dei materiali giudiziari di coloro che sono finiti in prigione con accuse di “terrorismo” o sono ancora sotto inchiesta. Perché metto la parola terrorismo tra virgolette? Perché per la stragrande maggioranza si tratta di “terroristi per nomina”. Una pratica che fino a tutto il 2006 ha soppiantato la lotta al terrorismo vero e ha sfornato terroristi potenziali su cui vendicarsi. Quando procura e tribunali non servono la legge e non mirano a punire i colpevoli, ma lavorano su mandato politico e per una contabilità antiterroristica che aggrada al Cremlino, i processi spuntano come funghi».
Questi processi, conclude Politkovskaja, «sono l’arena in cui si scontrano due approcci ideologici a ciò che accade nella zona di “operazioni antiterrorismo del Caucaso del Nord”: è la legge contro l’illegalità o piuttosto la “nostra” illegalità contro la “loro”?». Questi erano i metodi del signor Putin quindici, vent’anni fa, ai primi gradini della sua carriera di uomo di stato e di grande liberale. Ma mi raccomando, voi guerrafondai dell’Occidente, non umiliatelo troppo.