«Patti chiari, amicizia lunga. Se si vuol proseguire l’alleanza con il Movimento Cinque Stelle, vanno sciolti subito i nodi su politica estera, giustizia sociale e diritti civili. Sono temi fondamentali, altrimenti su quali basi la costruiamo la coalizione?». Dario Nardella, sindaco di Firenze, lo dice a Repubblica, stufo dei contorcimenti di quello che, sulla carta, è il principale alleato del Pd. Tra i continui distinguo di Conte e i veti posti dai centristi sui grillini, il campo progressista, in vista delle elezioni del 2023, non decolla.
Certo, ammette guardando quello che accade nella coalizione di centrodestra, «la dialettica fra Letta e Conte è nulla in confronto a quella fra Meloni e Salvini, che non si parlano nemmeno più e non riescono neppure a trovare candidati comuni per le amministrative del 12 giugno. Il centrosinistra invece corre unito quasi ovunque». Quasi appunto. Anche perché, come lo stesso Nardella fa notare, «se si eccettua l’exploit del 2016 a Roma e a Torino, il M5S sui territori ha sempre sofferto. Mentre a livello nazionale sono alla ricerca di un profilo nuovo, dopo l’esperienza di governo che ne ha sovvertito la natura di movimento antisistema. Sono alle prese con questa profonda trasformazione, devono ancora completare la transizione».
Nel frattempo però le distanze aumentano, dalla guerra ai termovalorizzatori. Il Pd che deve fare? «Di certo, nessuna alleanza a scatola chiusa», risponde il sindaco. «Prima occorre trovare una vera condivisione sui temi e i valori di fondo, poi ognuno potrà marcare la propria identità. Su questioni come l’ambiente o il conflitto in Ucraina i nodi vanno sciolti al più presto. La linea di Letta è sempre stata limpida e io la difendo perché è proprio il rigore delle posizioni, già visto sui vaccini o il Ddl Zan, che sta facendo crescere il Pd. Ed è la ragione per cui solo lui può provare a federare le forze del centrosinistra. È l’unico in grado di tenere insieme Renzi e Conte, Calenda e Speranza».
Ma come farà? «Con molta pazienza e la consapevolezza che se non si sta insieme, in nome dell’europeismo, vince il centrodestra, ormai schiacciato su Fratelli d’Italia, che la Ue la vuole distruggere. Non dimentichiamo che Meloni ha firmato con Orbàn la Carta per un’Europa delle nazioni, all’insegna dei sovranismi e della frammentazione».
Ma «nessuna accozzaglia se ci si chiarisce prima». Anche perché «con questo sistema elettorale non abbiamo altra strada. Sappiamo che per gli italiani non è una priorità, ma la legge attuale andrebbe cambiata per recuperare il rapporto con i cittadini che tutte le riforme dal Porcellum in poi hanno via via deteriorato, in cambio di una promessa di stabilità che non si è mai riusciti a garantire. Basti pensare che i 7,5 milioni di astenuti registrati nel 2006 sono diventati 12,5 nel 2018».
Con il proporzionale, spiega, «il Pd dovrebbe lanciare Letta candidato premier. Con il Rosatellum, partendo dai dati delle ultime elezioni, il segretario può invece giocare il ruolo del federatore. In entrambi i casi, il Pd ha un valore aggiunto che deve assolutamente giocarsi: i sindaci. Schierati in prima linea porterebbero moltissimi voti in più».
Da Lepore a Gualtieri, da Gori a Mancinelli, da Delbono a Ricci, i sindaci del Pd «sono un modello di buon governo che su tanti temi (welfare, sicurezza, ambiente, rigenerazione urbana) può essere tradotto in un progetto di governo del Paese. Con un grande ritorno in termini elettorali». Perché, spiega, «potremmo fungere anche da catalizzatore delle liste civiche, che è importante coinvolgere per le idee e le energie in grado di sprigionare. Ricordo che a Bari quella di Decaro ha preso il 40%, a Napoli la lista Manfredi il 37. Detto che la sfida è come trasferire a livello nazionale il consenso nelle città, il Pd deve diventare il punto di riferimento del civismo».