Bisognerebbe evitare di trarre conclusioni troppo positive dal risultato modesto, se non fallimentare, dello sciopero proclamato dall’Associazione nazionale magistrati contro la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema di elezione del Consiglio superiore della magistratura, intestata alla ministra della Giustizia Marta Cartabia.
È stato uno sciopero contro una legge che sfata il tabù dell’intoccabilità di alcuni temi, ma che comunque li tocca in modo parziale e insufficiente. Adesso è forse più probabile l’approvazione definitiva della legge al Senato, ma non lo è altrettanto che, a partire da questa legge, si facciano rapidamente i necessari passi avanti, che invece un vasto fronte politico-giudiziario considera impraticabili o comunque prematuri.
Il risultato di questo sciopero e della mobilitazione resistenziale dell’Anm andrà letto, come si dice in burocratese, in combinato disposto con quello dei referendum che andranno al voto il prossimo 12 giugno e che uno schieramento trasversale, che unisce favorevoli e contrari alla (micro)riforma Cartabia, lavora per tenere lontanissimi dal quorum, che ne garantirebbe la validità.
In fondo, il vero compromesso politico che sembra reggere tra la maggioranza dei partiti e la maggioranza delle toghe è quello di limitare alla diatriba efficientistica il dibattito sulla giustizia, lasciando da parte le questioni, ben più cruciali, che attengono alla funzione e ai limiti costituzionali della legislazione e della giurisdizione penale: funzione pervertita e limiti travolti da una deriva panpenalistica e punitivistica, che non ha affatto opposto, ma piuttosto affratellato la maggioranza dei politici e dei magistrati, e ha aperto la strada a una proliferazione letteralmente metastatica di norme incriminatrici, alla neutralizzazione del principio della presunzione di innocenza, alla dilatazione del dominio della giustizia penale, fino a farne un’istanza di tutela generale e commissariale della vita pubblica e alla conseguente rivendicazione da parte dei magistrati inquirenti di una vera e propria rappresentanza dell’interesse popolare.
I referendum, se si aprisse una discussione pubblica, che ci si guarda bene dall’aprire, aiuterebbero a manifestare la portata dei problemi della giustizia penale in Italia e, problema nel problema, la sostanziale unità tra la maggioranza delle forze politiche e delle correnti togate attorno ai bastioni normativi e simbolici della giustizia a furor di popolo.
Facciamo un esempio concreto, quello dei due referendum che mettono al centro lo scandalo della presunzione di innocenza calpestata e negata in nome della assurda funzione segnaletica della giustizia penale: la galera o altre forme di limitazione della libertà e dei diritti individuali come messaggio sociale. Sulla custodia cautelare e sulla legge Severino la coalizione del NO è trasversale – da Letta a Meloni – unita e tetragona proprio perché la carcerazione o l’espulsione preventiva dalla vita civile dei cosiddetti inquisiti, marchio di infamia imperituro dalla stagione di Tangentopoli, è diventato il valore non negoziabile del nostro dibattito civile, la divisa d’ordinanza della Repubblica trasformistica dell’o-ne-stà.
La giustizia è stata corrotta proprio da questa idea provvidenzialistica e la politica è stata infettata proprio da questa idea igienistica del sistema penale. Quindi anche quanti – non c’è politico che astrattamente non lo faccia – riconoscono gli abusi della custodia cautelare e gli eccessi della legge Severino devono in grande maggioranza essere contro i referendum su questi temi, perché non possono riconoscere lo scandalo che scoperchiano.
Insomma, la strategia del silenzio sui referendum, certo favorita dall’emergenza politico-mediatica della guerra, ma perseguita con metodo scientifico, fa parte della più ampia strategia di continuare a discutere, litigare e magari scioperare su temi che stanno a distanza di sicurezza dal centro del problema della giustizia penale in Italia.