Enrico Costanza è il papà degli orti degli chef, e oggi aiuta Michelangelo Mammoliti ad aprire il suo nuovo e attesissimo ristorante piemontese. È una delle persone che ha fatto per l’orticoltura in Italia più di quanto abbia fatto chiunque altro: perché non solo l’ha fatta entrare nell’alta cucina, contribuendo per esempio a creare l’orto del tristellato Piazza Duomo di Alba, di cui è stato artefice insieme a Enrico Crippa, che grazie all’orto ha ideato alcuni dei suoi piatti iconici, come la sua celeberrima insalata. Ma ha anche contribuito a fare dell’orto un tema degno di una comunicazione moderna ed efficace, facendo diventare cool l’agricoltura.
E durante un talk nel recente FoodExp, evento creato con determinazione da Giovanni Pizzolante nelle strutture di pietra leccese del Convento dei Dominicani, Costanza ha iniziato con una provocazione, che ci sentiamo di sottoscrivere e controfirmare.
«Mi chiedo se abbia ancora senso, per un ristorante, avere un orto. Ormai siamo in una narrazione che impone di avere l’orto, ma è davvero necessario?».
Detto da lui, che appunto ha creato dal nulla questa esigenza, e l’ha fatta diventare un bisogno e una risorsa importante, il messaggio è particolarmente dirompente. Si è pentito della sua opera? Certo che no, si è però preoccupato di quanto – come spesso succede in questo campo – da necessità e grande opportunità, avere l’orto fuori dal ristorante è diventato moda. E allora via a cassette uno per uno, che nemmeno basterebbero per un single milanese, lancio con comunicato stampa e insalatine perfette che andranno a decorare solo le foto d’autore che i giornalisti del settore si delizieranno di poter usare per illustrare i loro articoli inneggianti la sostenibilità. Continua Costanza: «Facciamo calare l’hype sugli orti. Non voglio certo darmi la zappa sui piedi da solo – sottolinea con ironia – ma restituiamo un senso a questa scelta. Se l’orto esiste, e serve davvero al ristorante ed è funzionale alla produzione e non solo alla comunicazione, allora ben venga». Altrimenti, se è solo storytelling, possiamo anche evitarcelo.
Che si sia creato “hype” sull’orto è fuori discussione, ma per fortuna ci sono tanti orti fuori dai ristoranti che hanno un senso e che sono una risorsa in grado di far cambiare modo di cucinare agli chef capaci di coglierne gli stimoli materiali e filosofici.
Francesco Brutto, partner di Chiara Pavan e chef coltivatore nel magnifico orto veneziano sull’isola di Mazzorbo a Venissa, ne è un esempio: «Per noi avere l’orto è una necessità, perché dove siamo facciamo fatica a rifornirci in maniera alternativa. Ma non siamo esperti contadini, quindi spesso i vegetali arrivano tutti insieme a maturazione: per questo abbiamo fatto di necessità virtù e abbiamo lavorato sulle fermentazioni, per mettere da parte come un tempo i frutti della terra». Usano le loro conoscenze per sperimentare nuove modalità di conservazione, e ci regalano così, nel piatto, nuovi e inconsueti sapori. Che poi è quello che fanno da sempre in ottica di spreco zero. Prosegue Brutto: « C’è troppo azoto nel mare e questo causa una grande produzione di alghe della parte Nord della laguna. In laguna i pescatori pescano sempre meno pesce e sempre più alghe, e noi abbiamo iniziato a usarle nei piatti». Un bel modo di essere sostenibili senza per forza inventarsi un modo glamour per farlo.
Stessa scelta per Domingo Schingaro, chef del relais di lusso pugliese Borgo Egnazia, una stella Michelin nel ristorante gourmet e tanta fatica per gestire una macchina enorme, che solo nelle sue cucine d’estate dà lavoro a più di 80 persone con ristoranti vari e in continuo movimento all’interno della struttura. «Non credo molto nello chef agronomo. Quando sono arrivato nel 2016 a Borgo Egnazia e mi sono ritrovato con immensi orti da gestire e da sfruttare mi sono subito reso conto che non potevo farlo da solo: è un lavoro che ha bisogno di esperti. Anche semplicemente per evitare di avere tutto pronto allo stesso momento, cosa che con i nostri numeri e l’estensione dei terreni non possiamo proprio gestire. Negli anni abbiamo lavorato anche noi su tecniche di conservazione, ma era importante gestire bene i terreni. E l’abbiamo fatto anche grazie a un accordo con l’Università di Bari, ad agraria hanno preparato un libro sulla biodiversità della Puglia e noi abbiamo dato loro dei terreni in modo che, partendo dei semi antichi, potessero mettere a dimora diverse varietà. Anche per me questa è una ricchezza».
Dimostrata nel piatto durante una cena, che si ripeterà per tutta l’estate, proprio vissuta nell’orto del Borgo, in collaborazione con i ragazzi di Mezzapagnotta, realtà “etnobotanica” legata al territorio e in grado di costruire piatti partendo da erbe spontanee e verdure antiche, grazie alla collaborazione con un esperto raccoglitore della Murgia, rinnovandole con l’occhio e la tecnica attuali. Il risultato? Un’esplosione dal gusto fortemente identitario che non lascia indifferenti e anzi sottolinea un filo rosso che sta unendo le tavole creative di tutta Italia: è l’apoteosi del gusto amaro a prevalere, e dopo un periodo “acido” che ha dominato negli ultimi anni, è sicuramente l’ultimo e più divisivo gusto quello che esploreremo nei prossimi anni a tutti i livelli. Se l’alta cucina dà il via anche alle scelte della ristorazione più pop, e poi ai prodotti dell’industria, presto troveremo anche sui banchi del supermercato più gusti amari su cui mettere alla prova il palato.
Del resto, in Puglia l’amaro non è certo una novità, ma un gusto insito nel territorio, che può e deve diventare protagonista anche per stimolare il turismo, come sottolinea Giuseppe Fersino, patron di Masseria Le stanzie: «L’agricoltura è molto legata all’aspetto turistico. E dare identità alla produzione agricola è un modo per tutelare e salvaguardare il patrimonio locale, per dare valore a quelle produzioni che portano anche ad avere la giusta attenzione al paesaggio».