Mentre camminavano all’ombra degli immensi platani che si alternano lungo il viale in uscita dal parco verso via Vitellia, Arianna volle che la nonna le tenesse la mano. Aveva avuto l’impressione che potesse andarsene da un momento all’altro e non riusciva neppure a pensarci.
Si era assicurata che non stessero lasciando la villa e la nonna le aveva spiegato che no, la via di lì usciva, ma loro erano dirette altrove. Sarebbero passate in un immenso prato costeggiato da un bosco selvaggio prima di arrivare a una casina che da qualche anno era diventato un bar, così avrebbero potuto prendersi qualcosa per merenda. Arianna non aveva risposto. Si era chiesta, lì per lì, che merenda potesse fare ora la nonna, ma quella curiosità era scomparsa immediatamente.
Aveva cominciato a pensare, chissà come, a un giorno in cui erano andate a mangiare sotto casa in una trattoria che lei vedeva sempre da fuori e dove non era stata mai. «Ti ci porto come premio» le diceva ogni volta la nonna, e lei alla prima occasione si era fatta avanti. Chissà cosa si era inventata per meritarselo. Ma menomale che lo aveva fatto, perché adesso il ricordo era magnifico.
Le pareva di rivedere tutto come se non fosse mai passato. La nonna si era vestita magnificamente per uscire con lei. Era un evento. La prima cena loro due sole.
Sotto casa, in quella trattoria che, come le aveva spiegato mentre entravano, era ormai diventata un ristorante, uno dei classici ristoranti romani con quell’aria antica, che una volta erano posti semplicissimi eppoi via via avevano preso un carattere diverso e più raffinato senza però mai perdere la semplicità iniziale. Che vestito si era messa lei? Non se lo ricordava. La nonna invece era elegantissima, sempre. Tutti lo dicevano. Adesso, mentre ci pensava, le veniva in mente che non si vestiva mai con cose strane. Mai nulla di eccessivo. Era la regola della famiglia perché anche il nonno era elegante, ma semplice. Tutti dicevano che vestiva all’inglese. Eppure lui di inglese non sapeva neanche una parola, chissà, una volta glielo avrebbe chiesto.
Quel giorno comunque non aveva pensato all’eleganza. Era stato così bello fin dal suono del citofono, ma anche da prima, da tutta l’attesa della serata, la sua prima sera da sola fuori. La voce della nonna nel citofono! Se la ricordava perfettamente. Squillante. Allegra. Burlesca. L’aveva presa in giro. «Arianna Pesce? È attesa giù in strada». Lei era così eccitata che aveva risposto ridendo e lamentandosi, come se si vergognasse. Poi era corsa via. La nonna non era salita, infatti. Come si fa fra adulti, l’aveva aspettata giù e lei era scesa per le scale e le aveva portato un disegno in regalo.
[…]
Ma certo si ricordava che, entrando nel ristorante, la nonna l’aveva presentata ai camerieri che erano tutti amici suoi e la trattavano con moltissima gentilezza, ripetendole signora qua, signora là, signora vuole questo, signora vuole quello. Lei si sentiva grande e avevano ordinato subito un antipasto di bruschette perché lì c’era il forno a legna – le aveva detto la nonna – e le bruschette sono buone solo se le fanno davvero sulla brace. Così poi avevano parlato tanto della brace e dei sapori della brace e alla fine Arianna aveva voluto prendere il pollo alla brace.
A lei piaceva moltissimo il pollo, ma addirittura poteva impazzire per il pollo con la pel e bruciaticcia sulla brace e la coscia che si può tenere in mano anche se sei in un ristorante, basta farlo con grazia. Così le aveva spiegato la nonna. Che la buona educazione stava, sì, in ciò che si faceva, ma soprattutto nel modo in cui si facevano le cose. Che non si mette la testa nel piatto, d’accordo, questo è scontato. Ma che soprattutto qualsiasi cosa si può fare con attenzione e grazia. Per esempio i gomiti sul tavolo in teoria non si dovrebbero mettere, ma se uno chiacchiera e con grazia tiene i gomiti accanto al piatto e si appoggia un po’ sulle mani intrecciate l’una nell’altra non c’è nessun problema.
[…]
Arianna si voltò a guardare la nonna. I suoi capelli bianchi scintillavano nel sole. Amava i suoi capelli bianchi e non c’era niente di più bello della sua mano fresca e forte, le dita lunghe, i suoi anelli sottili, la fede d’oro e la grazia e l’eleganza con cui la teneva con sé. Era come sentirsi protetti anche se la mano con cui la teneva non era affatto una mano che stringeva, ma una mano che offriva una magnifica sensazione di libertà. «Sei bellissima, nonna» disse, ma forse la nonna non l’ascoltava. Sembrava persa in chissà quale pensiero. Sembrava che avesse gli occhi chiusi. Che stesse ricordando qualcosa o che stesse tramando qualche scherzo improvviso.
da “Sono difficili le cose belle”, Matteo Nucci, HarperCollins, 288 pagine, 17 euro