Quanto leggerete tra poco è il frutto della mia fantasia o meglio degli incubi che mi assalirono dopo la vittoria del sindaco Gianni Alemanno a Roma. Il mio punto di vista non era quello di un giornalista distaccato: ero stato consigliere comunale nella prima consiliatura di Francesco Rutelli che aveva preso in mano una città sfasciata e dominata dalle filiere clientelari del malaffare, sconfiggendo la destra missina di Gianfranco Fini, e l’aveva guidata in un percorso di modernizzazione inclusiva poi proseguita dalle giunte Veltroni.
Al termine di un ciclo di governo della sinistra, con due dei suoi migliori leader, la città si era consegnata nelle mani di quella destra che aveva sconfitto quindici anni prima. Era tornato Rutelli, al posto di Fini c’era Alemanno, ma questa volta aveva vinto la destra, sfondando nelle grandi periferie metropolitane che erano state serbatoio di voti della sinistra.
Ora governavano loro. Ci avevano pian piano rubato il popolo. Questa volta l’antifascismo non aveva funzionato. Si era rotto qualcosa nel profondo e le nuove paure create dall’immigrazione, dalla crisi economica globale e dalle ineguaglianze sociali, ben alimentate da una narrazione isterica da parte dei media e da un’accorta regia politica, avevano trovato una destra pronta ad accoglierle. Una destra che aveva ancora dentro di sé persone per bene ma che non aveva mai reciso i legami con l’humus fascista che a Roma era stato proletario e bombarolo, spesso allacciato con mondi criminali
Cominciò a comporsi nella mia immaginazione uno scenario distopico, nel quale queste radici antiche a un certo punto si integravano con una nuova destra populista e sconfiggevano la destra perbenista e istituzionale. Così nacque un romanzo noir (“Italianera”, Fuorionda, 2011) pubblicato prima che esplodesse Mafia Capitale, del quale Linkiesta oggi pubblica qualche stralcio, proiettato temporalmente dopo la sindacatura Alemanno.
La città che racconto è una città buia, impaurita, degradata, che sembra sciogliersi nell’incessante pioggia che la batte, e dove politica e criminalità si incontrano. I protagonisti sono maschere dietro le quali il lettore può divertirsi a immaginare eventuali somiglianze con personaggi reali.
Nelle nuove elezioni la sinistra non arriva al ballottaggio e la destra perbenista deve vedersela con una nuova destra populista che interpreta modernamente la triade fascista di “Dio, Patria, Famiglia”. C’è un vecchio giornalista di sinistra, Saro Prizzi, che si è ritirato a vivere in Maremma e che scopre dietro quella vittoria uno scenario inquietante.
L’anima del movimento è un reduce degli anni di piombo (Il Kapo), ma la candidata sindaca è un giovane donna, detta la Legionaria, una boxeur che è diventata famosa per aver pestato due rumeni che l’avevano aggredita. È una bionda dagli occhi cerulei, piccola ma con un corpo scolpito dalla boxe. “Il Tibetano”, dirigente storico della sinistra di stazza colossale che dopo la sconfitta si è ritirato in un convento di monaci buddisti dove medita e dimagrisce, cerca di evitare la vittoria delle Legionaria, in accordo con “Il Tessitore”, vecchio democristiano e uomo-chiave del “Presidente”, un tycoon che governa il paese, spingendo la sinistra a votare per la destra buona al ballotaggio.
La Legionaria vince soprattutto grazie all’aiuto del “Ciociaro”, un vecchio fascista ben inserito nel mondo democristiano che ha soppiantato il Tessitore come consigliere del Presidente. Un anno dopo, mentre Il Presidente è stato eletto al Quirinale e al suo posto governa un Professore dalle erre moscia, a Roma scoppiano rivolte nelle periferie che la Legionaria reprime con pugno di ferro, si snoda un complotto che prevede un attento nello stadio di Roma durante un derby per scatenare la paura, cacciare il Professore e insediare al suo posto la Legionaria.
State sereni. Niente di quello che leggerete tra poco è mai accaduto, né mai accadrà.
Capitolo 13, Er Briciola
Gli uomini della scorta cercarono di farla desistere, quando ordinò loro di dirigersi verso il cuore degli scontri, dove centinaia di poliziotti in assetto antisommossa fronteggiavano una folla composita e ondeggiante di ragazzi, tra cui molti neri, e vecchi malviventi. Il comandante del plotone si diresse verso di lei con atteggiamento rispettoso, ma ben altri erano i pensieri che si agitavano nella sua mente: «E questa adesso, che cosa vuole? Ci mancava solo lo spettacolino del sindaco, come se non avessimo già tanti problemi qua». Lei sembrò quasi leggergli dentro e disse: «Non si preoccupi, non sono venuta qua per fare propaganda, voglio solo cercare di capire perché si comportano così. Mi ci faccia parlare, intanto chiami i rinforzi».
Il mondo al quale si stava avvicinando non apparteneva certo a lei, cresciuta nei quartieri della buona borghesia romana, poi proiettata all’improvviso nel mondo dorato della televisione, dove il suo aspetto seducente e il suo stile deciso avevano sfondato. Tuttavia, la frequentazione dell’ambiente della boxe l’aveva avvicinata a tanti ragazzi e ragazze che venivano dalle periferie e sapeva che la chiave per affrontarli era quella del rispetto. Non dovevi mostrare paura, dovevi affrontarli faccia a faccia.
Si fece dare un megafono dal comandante e si avvicinò alla barricata, circondata dagli uomini della scorta, sguardo vigile e mano pronta a estrarre la pistola. Cominciò a parlare: «Sono venuta qui per capire che cosa volete. Io vi offro case nuove, belle, pulite, perché volete restare in questo luogo abbandonato da tutti? Voglio parlare con qualcuno di voi, vi garantisco che nel frattempo non succederà nulla».
Tump Tump Tump Tà Tà Tatà. Tump Tump Tump Tà Tà Tatà. Tump Tump Tump Tà Tà Tatà.
Dalla barricata si levò un suono ossessivo, mentre da un varco sbucarono una testa fasciata da una bandana nera, una felpa nera slabbrata, un paio di pantaloni militari larghissimi che finivano sotto le sneakers. «Me chiamano Er Briciola, ma nun te fa confonne dall’aspetto. Io so’ cattivo. Ma tanto cattivo». A parlare attraverso un megafono era stato un ragazzo nero mingherlino, mentre alle sue spalle comparivano dieci felpe multicolori, con il cappuccio calato sulla testa e le spranghe di ferro in mano.
«Ok, neppure io scherzo, quanto a cattiveria. Ma proprio non vi capisco, io sto lavorando per il vostro futuro, lontano da questa fogna…».
A quelle parole il suono che veniva dalla barricata si fece ancora più ossessivo.
Tump Tump Tump Tà Tà Tà Tatatatà Tump Tump Tump Tà Tà Tà Tatatatà.Tump Tump Tump Tà Tà Tà Tatatatà
Er Briciola impugnò il megafono e cominciò a scandire:
Sei venuta qui dietro gli scudi della polizia / Dici che vuoi cancellare questa fogna / Ma i miei amici da qui non vanno via / Vattene tu, senza rispetto e piena di vergogna / Il rispetto tu non sai che cosa sia / Questa vita è la vita che il tuo mondo ci consegna / È una vita di merda ma è la vita mia / Per te solo il denaro fa una vita degna / Io te lo ripeto il rispetto non sai neppure cosa sia / L’amicizia nel dolore è qualcosa che t’impegna / I tuoi amici vogliono fare i soldi in questa via / Tu non lo sai ma qua c’è gente che sogna / Senti senti senti questo fuoco non è una litania / Le tue belle case per noi sono una gogna / Vogliamo bruciare bruciare bruciare in quella che tu chiami una follia.
Non appena abbassato il megafono, Er Briciola saltò come un gatto dietro le barricate e gli altri ragazzi lo seguirono lesti. Poi, partì una gragnuola di sassi contro lo schieramento della polizia che già alzava gli scudi e innescava i lacrimogeni. La Legionaria fu portata via di peso dagli agenti speciali, ma fece in tempo a scorgere il sorriso beffardo di Veleno che stava accendendo la miccia di una molotov dietro una macchina bruciata. L’esplosione fu terribile, non era una semplice molotov a benzina, era un ordigno chimico che innalzò in alto la sua fiamma giallastra e puzzolente. Ora l’aria si era fatta irrespirabile, la puzza dei copertoni bruciati si mischiava a quella dei lacrimogeni e delle bottiglie incendiarie.
Tump Tump Tump Tà Tà Tà Tatatatà. Tump Tump Tump Tà Tà Tà Tatatatà.
Capitolo 14, Al Quirinale
La grande vetrata dello studio del Presidente si affacciava sul piazzale in cui si stava svolgendo la cerimonia di saluto agli ospiti della delegazione cinese, appena ricevuta dal Capo dello stato. Il Ciociaro li guardò e sul suo viso comparve un ghigno: «Dopo er Colosseo, mo’ glie vennemo pure la Fontana di Trevi, la Torre di Pisa e il Ponte dei Sospiri a Venezia. Chi me l’avrebbe detto che sarei riuscito a fare affari con i comunisti!», pensò.
Il Presidente entrò con un passo stanco e si accasciò su una poltrona damascata, slacciandosi il doppio petto che chiudeva lo stomaco, sempre più prominente. Il sonno lo colse all’improvviso.
La vita del Quirinale non faceva per lui, si perdeva un sacco di tempo in cerimonie barocche, aveva una quantità infinita di compiti di rappresentanza, doveva mettere una serie impressionante di firme. Tutto il contrario di quella che era stata la sua vita, fino a quel momento: un blitz dietro l’altro, veloci azioni di contropiede che rovesciavano il risultato di partite che parevano perse. E quella capacità di rialzarsi dalle cadute più rovinose con la forza di volontà e la fiducia nei propri mezzi.
Del resto, non avrebbe potuto costruire il suo immenso impero economico senza quello spirito animalesco, tipico del vero capitalista. Possedeva tutto: banche, assicurazioni, televisioni, giornali, ville, yacht, automobili. Le donne gli cadevano ai piedi, perché sapeva conquistarle con il suo charme e le sue rinomate capacità amatorie. Il potere, l’aveva sperimentato di persona, promana una speciale capacità seduttiva, una specie di odore sessuale cui le donne non sanno resistere. Lo facevano davvero imbestialire, quegli sfigati dell’opposizione, in particolare quello scalmanato del Giudice, che l’accusavano di comprarsele, le donne. Figurarsi, semmai era lui che aveva dovuto respingere tante profferte, persino imbarazzanti. E poi non riusciva proprio a capire perché, ogni volta che nelle occasioni pubbliche faceva degli apprezzamenti sulle belle signore presenti, si scatenasse la canea delle femministe in servizio permanente. Non parliamo poi di quando ironizzava sull’aspetto di qualche esponente femminile dell’opposizione! Solo che ognuna di quelle polemiche, rilanciata con sapienza dai suoi mezzi di comunicazione, gli faceva conquistare un sacco di consensi. Lui si divertiva come il toreador quando agita il drappo rosso davanti al toro. A ogni indignata interpellanza parlamentare, nei mercati popolari, nei bar, nelle province profonde dove la gente guarda la tv e non legge i giornaloni di élite, il popolo si identificava con lui. «Minchia, ma che volevano un presidente omosessuale? Meno male chi a iddu ci piaciuni ’i fimmini». «Ohè, mica un pirla il boss, potessi ciulare io come lui!». «Ahò, ma ’o sai che ’tte dico? Che si una è brutta è brutta, mica te posseno mannà a Reggina Celi perché l’hai detto». Il complimento migliore gliel’avevano fatto una volta in un dibattito parlamentare: «Al Quirinale c’è chi ragiona proprio come un camionista!», gli aveva scagliato contro la giovane e agguerrita esponente della nuova destra legalitaria che, dopo essere stata sconfitta a Roma, gli si era rivoltata contro. Era proprio il saper ragionare in quel modo che ne faceva un leader popolare e vincente, anche a costo di infrangere il bon ton.
Quel che non capivano i suoi avversari era che lui sceglieva appositamente quei toni per non perdere il contatto con un popolo che, avvilito dalla crisi economica e spinto all’egoismo, non si faceva più sedurre dai sogni, neppure dai suoi. Eppure con quel popolo lui non poteva perdere il contatto, perché non appena fosse caduto, i suoi stessi «amici» gli si sarebbero avventati addosso per sbranarlo. I vecchi e collaudati sistemi di persuasione, offrendo denaro e posti a destra e a manca, non bastavano più e chi non lo capiva, doveva per forza essere lasciato indietro. Perciò aveva rotto il lungo sodalizio con il Gran Tessitore, l’uomo della vecchia guardia che gli era stato indispensabile negli anni dell’ascesa quando, dopo che lui assestava un colpo, arrivava come il Conte Zio per «sopire e troncare, padre molto reverendo, troncare e sopire».
Adesso, giunto all’autunno della sua vita politica, si sentiva solo, e non soltanto perché la moglie l’aveva lasciato, ovviamente con una fantastica rendita annuale che lui era costretto a pagarle, e i figli erano cresciuti, dedicandosi a cruente guerre per la divisione del patrimonio. Era diventato più impaziente e voleva salvare i suoi affari, ma anche lasciare un segno nella storia del paese. Voleva mettere il primo mattone della «Nuova Italia», libera dalle catene di uno stato invadente, lo stato di quei giudici che invece che reprimere il crimine di strada, che rende impossibile la vita alla povera gente, pretendevano di fare i giustizieri.
Si arrestavano i latitanti? Non bastava, bisognava perseguire i capitali mafiosi, come se non l’avessero già detto gli antichi romani: Pecunia non olet. E cosa volevano fare: consegnare alla rovina economica intere regioni italiane? Togliere l’ossigeno a quelle imprese che avevano dovuto arrangiarsi? E in nome di cosa, poi? Di un astratto concetto di legalità, una specie di lavacro morale dal quale fare emergere un mondo di giusti, di buoni e di onesti? Temeva coloro che si proponevano di raddrizzare il legno storto dell’umanità, temeva un mondo siffatto e sapeva che, come lui, lo temeva la maggioranza degli italiani. Infatti, aveva vinto le ultime elezioni, ma quella vittoria era stato il primo passo verso la battaglia definitiva di una lunga guerra. Non si era fatto eleggere al Quirinale per finire la sua carriera come un monarca, ossequiato e riverito, temuto e amato, come pure avrebbe potuto. Aveva fondato la «Nuova Italia», voleva che si scrivesse di lui nei libri di storia.
Nuova Italia
Intanto, quel nome, «Nuova Italia», sarebbe stato quello giusto per il nuovo movimento, che avrebbe inglobato i resti dei vecchi partiti che l’avevano sostenuto, ormai preda delle oligarchie interne che si dilaniavano a colpi di tessere e di dossier degli uni contro gli altri. Era per questo che aveva giocato d’anticipo, sbarrando il passo all’ex Sindaco di Roma, che si era messo in testa di scalare i vertici del partito per poi fargli le scarpe, di fare una destra autonoma da lui, amica dei suoi nemici, ovvero quei giudici che da anni lo perseguitavano con accuse assurde e quei giornalisti che ne rilanciavano le tesi sui loro giornali. E lui l’aveva stroncato, appoggiando quella donna, la Legionaria, che gli piaceva sempre di più. Non c’entrava nulla l’aspetto fisico, anche se era bellissima. Ormai più vicino agli ottanta che ai settanta, l’ostentato priapismo, più che una malattia senile, era un’esibizione simbolica di potenza. Aveva bisogno di sentirsi amato, per questo nelle sue residenze ragazze sempre più giovani partecipavano a feste nelle quali era davvero riverito come un Sultano. Da anni ormai l’apparecchio che si era fatto installare da un famoso luminare e che gli consentiva lunghe erezioni meccaniche, non funzionava più. Per cui era tutta una simulazione, una messa in scena, una ritualizzazione dell’atto sessuale, il vero piacere era nell’ostentazione di quelle decine di giovani e bellissime donne che gli si sottomettevano.
Non appena mise piede nel Grande Palazzo, gli apparve come un incubo, un futuro solitario in quelle stanze enormi, separate da corridoi lunghissimi, pieni di dipinti e sculture di grandissimo valore. Ogni cosa, dalle stoviglie ai mobili, gli ricordava la storia dell’edificio che aveva ospitato Papi, Re e Presidenti. Ogni cosa sembrava rappresentare quella solenne immodificabilità, contro la quale era entrato in politica. Quell’insieme di tradizioni, di regole, di consuetudini che la vecchia Repubblica aveva sedimentato nel tempo come una cintura di sicurezza, una sorta di ultima frontiera contro ogni cambiamento. E così, si rifugiava nei cunicoli, andava alla scoperta di passaggi segreti, uno dei quali, collocato dietro una enorme libreria in noce, proprio alle spalle della poltrona damascata sulla quale si era accasciato, conduceva a una stanza segretissima con luci stroboscopiche, divani neri e tende rosse, impianti di proiezione e di amplificazione modernissimi e ipertecnologici. Era lì che si rifugiava quando non ne poteva più dei riti stanchi delle istituzioni, in compagnia di giovani donne selvagge che si esibivano in spettacoli solo per lui.
Quella donna, la Legionaria, non partecipava a quei festini. Lei era diversa, gli dava la sensazione di possedere quella forza brutale, quell’energia selvaggia che conferisce il carisma al leader. Lui al Quirinale, con le nuove leggi che ne aumentavano i poteri; e lei, alla guida del partito, pronta a spiccare il volo verso la leadership del Governo. Sarebbero stati una coppia formidabile.
Per quella scoperta doveva ringraziare il Ciociaro, che l’aveva convinto ad appoggiarla sotterraneamente nelle ultime elezioni romane, quando non poteva farlo scopertamente, a causa delle sue imbarazzanti frequentazioni. La tragica morte del Kapo dovuta, gli aveva spiegato il Ciociaro, ai suoi mai sopiti viziacci, aveva tolto di mezzo anche quell’ostacolo. Era circolato qualche dubbio su quella morte e un giornalista vi aveva imbastito sopra il solito canovaccio del complotto, ma un magistrato corretto, un vero amico – gli aveva spiegato il fedele consigliere – aveva tolto di mezzo il pm che s’era già lanciato in ipotesi ardite e aveva archiviato il caso come morte accidentale.
Conosceva il Ciociaro da molti anni, ma solo nell’ultimo periodo era diventato il suo consigliere più fidato. Era stato sempre l’uomo degli incarichi riservati, il tramite con un mondo che era meglio non frequentare, ma con il quale chiunque stia al potere per tanto tempo deve venire a patti. Per un tacito accordo, non sempre gli spiegava quali sistemi usava per svolgere il suo dirty job, come lo chiamano gli americani, fatto sta che, oltre a procurargli le ragazze che popolavano le notti del Quirinale, gli era stato d’aiuto anche in importanti operazioni finanziarie, con le sue multiformi e talvolta imprevedibili relazioni. La sua notoria nostalgia per il fascismo l’aveva tenuto ai margini della vita istituzionale, pur possedendo – aveva avuto modo di verificarlo di persona – un’intelligenza politica luciferina. Il colpo di genio romano ne era una prova. Quella città ora poteva diventare un laboratorio per tutto il paese: nordisti, sudisti, fascisti, basta con questi nomi vecchi, tutti nella «Nuova Italia», per costruire un paese che torni a sognare. Ecco, la sua vecchia dimestichezza con la televisione gli aveva anche fatto venire in mente quale potesse essere il claim della campagna politica dei prossimi mesi…
«Presidente, Presidente…», il Ciociaro lo chiamava, scuotendogli lievemente il braccio, per svegliarlo dal torpore in cui era ormai solito cadere, anche nel mezzo di importanti ricevimenti ufficiali. «Uhm, uhm… stavo riflettendo…».
«Lo so, lo so bene, Presidente, quando chiude gli occhi lei sta certamente elaborando qualcosa». «Novità? Come vanno i decreti legge che abbiamo messo in cantiere?».
«Ecco, è proprio di questo che volevo parlarle: ci sono troppe resistenze…».
«Ma chi, quei quattro gatti spelacchiati dell’opposizione?».
«Magari, fosse quello il problema…».
«E allora?».
«Ehm… ehm… È che il Professore mette un sacco di ostacoli, dice che il capo del Governo è lui, che al Quirinale spetta solo la firma pro forma e il Ministro della Polizia lo spalleggia, dicendo che il divieto di intercettazioni così generalizzato non va bene… e poi, tutti e due dicono che per aumentare i poteri del Capo dello stato ci vuole il referendum…».
Il Presidente, che aveva fino a quel momento seguito le parole del Ciociaro con gli occhi semichiusi, balzò su dalla poltrona e cominciò a sbraitare: «Grandissime teste di cazzo, ma chi ce li ha messi lì dove sono, eh? Chi ce li ha messi? Io, io li ho fatti diventare qualcuno, erano dei professorucoli di provincia e tali sarebbero rimasti senza di me. Devono fare quello che abbiamo deciso, per Dio!».
«Presidente, quei due frocetti dicono che nun se po’ fa’. Che è contro la Costituzione, che bisogna esaminare, cercare un accordo…».
«Idioti, maledetti idioti! E allora io che ci sto a fare qua? La Costituzione sono io! E si fa come dico io… anche perché abbiamo la maggioranza dei due terzi e quindi non c’è alcun bisogno del referendum. Certo, se tutti i nostri votano compatti…».
«Magari gli diamo un aiutino…».
«In che senso…».
«Beh, magari facendogli comprendere che i pericoli che corre il paese possono essere risolti solo con un uomo forte, che prenda in mano le redini e spazzi via i nemici che si oppongono al Grandioso Disegno di una Nuova Italia…».
«Bravo, ben detto…», disse il Presidente lasciandosi cadere di peso sulla poltrona e richiudendo gli occhi.
Il Ciociaro uscì dallo studio presidenziale e attraversò la lunga serie dei saloni di rappresentanza, dirigendosi verso il suo ufficio. Nell’anticamera, c’era uno egli agenti di scorta della Legionaria. «Ho un biglietto per lei. Aspetto la risposta». Era il modo che avevano ideato per non parlare al telefono di faccende delicate. Lo aprì e lesse: «Casino a Tor Bella Monaca ma io insisto con il pugno di ferro, come d’accordo. Però c’è un piccolo problema, in mezzo a quegli scalmanati ho intravisto qualcuno che potrebbe ricattarmi. Ti faccio sapere».
Il Ciociaro scrisse velocemente la risposta: «Va bene, aspetto, solito metodo».
Capitolo 21, Epilogo
Saro frenò il galoppo sfrenato del cavallo che alzava spruzzi di acqua e sabbia fendendo la riva mentre, sul promontorio dell’Argentario, cadeva la luce arancione del tramonto. Tornò indietro al trotto, superando una duna che lo condusse su una strada che s’immetteva sulla via provinciale e dopo un po’ giunse al casale dove la sua donna, Jamila, l’attendeva insieme a Ettore, il labrador.
Durante la lunga galoppata, aveva avuto modo di pensare ai fatti al centro dei quali, ancora una volta, era stato trascinato dagli eventi, più che da una scelta consapevole. Quella maledetta voglia di svelare le verità nascoste, l’aveva fregato ancora una volta. Dopo che aveva raccontato sul piccolo quotidiano «Viva La Roma» l’omicidio d’er Briciola, era diventato una sorta di appestato. Il direttore del grande quotidiano per cui lavorava, pur essendo un suo grande amico, l’aveva messo alla porta: «Saro, non ti posso più difendere, se non te ne vai, cacciano me. Forse non hai capito come vanno le cose». Ma lui l’aveva capito benissimo come andavano le cose, e aveva dato le dimissioni.
Entrò in casa, vide Jamila davanti al televisore. Stavano trasmettendo la diretta della seduta parlamentare per la fiducia al nuovo governo presieduto dalla Legionaria.
Prese un bicchiere di vino rosso e si sedette accanto alla sua donna. La camera dei deputati era una bolgia infernale mentre, fuori dal palazzo, gruppi di manifestanti si scontravano con le forze dell’ordine. La Legionaria stava in piedi nei banchi del governo, appena sotto lo scranno del presidente dell’assemblea, il corpo statuario fasciato dal solito tailleur nero, attendeva di poter riprendere il suo discorso, interrotto dall’irruzione del ministro della Polizia, che era entrato nell’aula urlando.
Salvo Lamerica, barone di Canicattì, un omino dall’aria mefistofelica, con un pizzetto che gl’incorniciava il volto scavato, era uno degli uomini che il Ciociaro le aveva messo accanto. Fascista da sempre, aveva preso in mano l’organizzazione del Movimento dopo la morte del Kapo. Nei talk show televisivi, sapeva intimorire gli avversari con la sua voce roca, interrompendoli e urlandogli contro insulti e improperi di ogni genere. Cultore del gesto esemplare, dell’ardimento in battaglia, cocainomane, non disdegnava, ispirandosi a Gabriele D’Annunzio, di gettarsi personalmente nella mischia.
Ed era esattamente quel che aveva fatto quel giorno, subito dopo aver giurato nelle mani del Capo dello Stato la sua fedeltà alla Repubblica. Arrivando alla camera, aveva visto la folla dei manifestanti che innalzavano cartelli e urlavano slogan contro la coalizione della «Nuova Italia» che raccoglieva la nuova maggioranza. Non appena fu riconosciuto, e fatto oggetto di fischi e urla di scherno, invece di affrettarsi all’ingresso, si era lanciato contro i manifestanti seguito dalla nutrita scorta. Ne era nato un parapiglia che la polizia, dietro suo ordine, aveva dovuto sedare con cariche violente e lancio di lacrimogeni.
Adesso, ripreso dalle telecamere, stava al centro dell’emiciclo e mostrava la giacca strappata, urlando rivolto verso i banchi dell’opposizione: «Eccola la vostra democrazia. Mandate gruppi di teppisti e terroristi ad aggredire i rappresentanti delle istituzioni! Eccolo, il vostro senso dello stato!».
Dai banchi dell’opposizione, si levarono grida di disappunto e insulti: «Buffone! Sei andato tu a provocarli!», «Fascista!».
Ineluttabile, scoppiò la rissa. I deputati della maggioranza si mossero dai loro banchi per andare incontro a quelli dell’opposizione che scendevano minacciosamente verso il Ministro che continuava a inveire, gesticolando scompostamente.
Saro era sconcertato, bevve un sorso di vino pensando che ormai, tra lo stadio e il parlamento, non c’era più alcuna differenza.
I robusti commessi della camera si erano frapposti tra i parlamentari degli opposti schieramenti che cercavano di colpirsi reciprocamente con cazzotti alla cieca, calci in aria, voluminosi fascicoli scagliati contro gli avversari, la Presidenza, i banchi del governo.
Il Barone di Canicattì, in mezzo a tutta quella bolgia, ghignava felice.
Il presidente dell’assemblea, sedata la rissa, invece di sospendere la seduta come chiedeva l’opposizione, chiese alla Legionaria di riprendere il suo discorso.
Il nuovo Premier, impassibile, ricominciò a parlare, tra le urla dell’opposizione.
«Signor Presidente, Onorevoli Colleghi, chi pensasse di poter intimidire il mio governo con azioni di questo tipo, è bene che si rassegni…».
«Buuu, Buuuu, vattene!».
«…Noi siamo qui per restaurare l’ordine. La nostra amata Nazione è stanca di subire passivamente l’invasione degli immigrati che violano le nostre leggi e mettono in discussione la nostra sicurezza, di sopportare la violenza della feccia umana che dalle periferie lancia l’assalto alla tranquillità delle nostre famiglie, di accettare che allo stadio non si vada più per assistere a una partita, ma per organizzare una guerra…».
«Parlaci di Tor Bella Monaca, parlaci dei morti di Roma!».
«…Una guerra che non consentiremo più. La forza ci viene dal consenso del popolo, che si esprime nella larghissima maggioranza che abbiamo in entrambi i rami del parlamento e che si è già chiaramente espressa eleggendo il nostro amato Presidente al Quirinale. Se oggi sentiamo la necessità di cambiare rotta, è perché abbiamo capito che la buona volontà che il mio predecessore aveva mostrato, la sua caritatevole attenzione non è stata ben ripagata, e non certo per colpa sua, sia chiaro! Abbiamo decretato lo stato d’emergenza a Roma e in tutte quelle zone del sud dove gli immigrati, fuggiti dai centri d’accoglienza, seminano il terrore. Basta! Basta con tutto questo, noi non saremo il governo dell’accoglienza, saremo il governo del rigore e sono certa che il nuovo ministero della Polizia, affidato all’amico Lamerica, farà la sua parte…».
«Fascisti, siete solo fascisti!», si urlava dai banchi dell’opposizione.
«Brava, brava, finalmente, il pugno di ferro ci vuole!» si rispondeva da quelli della maggioranza, a cominciare dal gruppone dei parlamentari nordisti.
«…Le parole che sento risuonare in quest’aula, gli epiteti che appartengono a un’altra era politica non scalfiscono le mie convinzioni. Se difendere la nostra gente vuol dire essere fascista, ebbene io allora sono fascista…».
A queste parole, dall’opposizione si levò un boato che sommerse i timidi tentativi del Presidente dell’assemblea di riportare l’ordine.
L’emiciclo divenne un ring, le tavolette degli scranni furono divelte e usate come clave. Il ministro di Polizia, in mezzo a tutto quel cataclisma, pareva l’uomo più felice del mondo. La Legionaria guardava in basso, senza un fremito. Il Ciociaro, che osservava dalla tribuna, sogghignava.
Saro spense la tv. «Jamila, si va a Capo Horn?»
da “Italianera”, di Carmine Fotia, fuorionda edizioni, 2011, pagine 224