Niente da fare, questo amalgama è faticosissimo. Non si può ancora dire che non sia riuscito, come si espresse Massimo D’Alema sull’allora giovane Partito democratico per alludere alla pratica incompatibilità delle due chiese, la democristiana e la comunista.
Ma insomma, è tutto complicato. Troppo complicato, cervellotico, innaturale. Oggi, tanti anni dopo, il problema non è più quello evocato da D’Alema, eppure in qualche modo persiste l’irriducibile dissidio novecentesco tra riformisti e massimalisti ovviamente aggiornato al 2022: e se i nomi di Filippo Turati e Giacinto Menotti Serrati sono per lo più sconosciuti agli stessi dirigenti dell’alleanza di centrosinistra, resta tuttora vivo il senso di una frattura ricomponibile – forse – solo in una logica di mera resistenza al nemico. Basta guardare lo spettacolo della coperta di Enrico Letta, troppo corta come in una comica di Buster Keaton: se la tiri di qua copre Carlo Calenda ma scopre i piedi dei rossoverdi e viceversa.
Dopo il teatrino di questi giorni ora la coppia Fratoianni&Bonelli pare arrivata a un accordo elettorale con il Partito democratico ma ieri il leader di Azione, che nel pomeriggio ha visto Letta nel bunker dell’Arel, era nero: «Non si possono avere due programmi alternativi».
Così che, senza un’acrobatica mediazione del leader del Partito democratico, in teoria non sembra ancora impossibile una clamorosa nuova svolta di Calenda, pronto a rompere l’intesa con Letta e ad andare dunque a costruire insieme a Matteo Renzi (che ieri “ha preso” Francesco Pizzarotti e l’ex Azione Giampiero Falasca) il famoso Terzo Polo, che, a certe condizioni, potrebbe superare il 10 per cento sconvolgendo del tutto il precario quadro pseudo-bipolare tanto caro a Letta (ammesso e non concesso che “Matteo” e “Carlo” facciano ‘sto matrimonio se non d’amore almeno elettorale) e ridisegnando la politica nazionale.
Ma – lo sottolineano al Nazareno – resta sempre aperta la strada di un’intesa difensiva contro la destra: intanto fermarli, e dopo il 25 settembre si vedrà. Un po’ di seggi a questo, un po’ di seggi a quello, et voilà. Sarebbe tutto molto minimalista: un’alleanza “contro” per pareggiare.
Così è messo oggi il centrosinistra italiano, nella costernazione dell’Europa e nello smarrimento di larga parte dell’opinione pubblica, dopo tre anni di ambizioni sbagliate, vergognosi corteggiamenti dei populisti, lotte di potere, leadership deboli. E dunque in questa cornice minimal, parafrasando Pierre de Coubertin, il leader del Pd potrebbe pensare che l’importante è pareggiare, non vincere.
Vincere infatti sembra fuori dalla sua portata, a meno che i dannati sondaggi non siano tutti sballati e che l’“Italia blu” di certi schemini risulti alla fine diversa: ma ostacolare l’annunciata marea melonian-salviniana (sempre che Giorgia riesca a mettere la museruola al capo leghista che come parla perde voti), questo sì che per un’alleanza larga sarebbe possibile. E poi hai visto mai. Un autogol della destra è sempre incombente, dati i soggetti.
Mettendo nelle liste gente seria, nuova, capace, popolare (non Susanna Camusso ma Marco Bentivogli, per capirci. E qualcuno si sta occupando di una candidatura di Marco Cappato?) e con una buona campagna elettorale qualcosa si può ottenere.
Un Senato pari e patta, per esempio, facendo sì che la destra non riesca a conquistare la maggioranza a palazzo Madama, cioè non arrivi a prendere 100 senatori. Messa così si capisce come quella dell’alleanza di centrosinistra sia una pura battaglia difensiva, un Piave da difendere, nessuno deve sbagliare una mossa.
Se poi l’aria dovesse cambiare con la fine dell’estate, ancora meglio: ma in queste ore nessuno s’illude. Siamo ormai ad un passaggio decisivo. O si recupera, anche nell’immagine, un minimo di compattezza o l’amalgama risulterà non riuscito anche stavolta. Ci sarà poi tempo per discutere di chi sarà stata la colpa, come nella migliore tradizione della sinistra italiana.