Fantasmagoria di NapoliIl romanzo del carabiniere irrisolto e del rispettabile truffatore

Nella vita dei rioni il confine tra buoni e cattivi non è netto. Così l’intrecciarsi di relazioni, amori e sentimenti raccontato nel romanzo di Leonardo Mastia (Cairo editore) mette in contatto due personaggi all’apparenza distanti ma in realtà accomunati da un dolore uguale

di Will Pagel, Unsplash

Non vi erano mai state grandi frequentazioni di famiglia, perché sin dal primo momento Renato, questo il suo nome, senza alcun plausibile motivo, aveva avuto scarsa simpatia per Concetta. Anzi, a dirla tutta, aveva sempre un poco diffidato della sua sincerità.

Tra i fratelli, però, i sentimenti di affetto e di solidarietà erano talmente forti che andavano ben oltre ogni umana congettura. Si volevano un gran bene e si cercavano sempre, soprattutto nel momento del bisogno. Una breve sosta alla sala scommesse creava una buona predisposizione d’animo, e col tempo era diventato quasi un obbligo morale.

Sullo stesso marciapiedi, come ogni mattina, lo aspettava puntualmente Pasquale, soprannominato «il giornalista». Cominciamo col dire che non aveva alcun titolo di studio e tanto meno possedeva un’edicola. Tutte le mattine andava in giro nelle strade del quartiere gli si avvicinava spingendo con foga il suo chioschetto su ruote, staccava un quotidiano locale e glielo porgeva con un’espressione indefinita, un misto di compiacenza e di furbizia insieme. Poi, velocemente, scompariva.

Don Mimì non era stupido, anzi, passava per uno notevolmente scaltro. Sapeva sbrigare i suoi affari, sicuramente poco puliti, con grande accortezza e senza presunzione.

L’unico suo punto debole era la scommessa. Soprattutto dietro alle corse dei cavalli buttava via un bel mucchio di soldi.

Anche quella mattina il parigino aveva iniziato la giornata seguendo il solito itinerario, ma dopo aver acquistato il giornale aveva fatto la strada a ritroso per un tratto e aveva raggiunto di nuovo il sagrato della chiesa.

Lì lo stavano aspettando alcuni giovani giunti a bordo di due grossi scooter parcheggiati sul marciapiedi.

Parlarono fitto fitto per un bel po’ di tempo, poi insieme, continuando a discorrere e gesticolare, imboccarono il vico delle Monache.

Lì lo chiamavano così perché, tanto tempo prima, lì aveva abitato una suora. Questa poi aveva lasciato l’abito talare per andare a convivere con un maestro di musica.

Una volta girato l’angolo, raggiunsero un piccolo bar, discreto e poco frequentato. Un bancone all’interno, dove troneggiava la macchina del caffè e tre tavolini in vimini addossati alla parete scolorita di fronte, ne formavano l’essenziale arredamento.

Mimì si sedette con fare elegante a quello più vicino all’ingresso. Impettito, con la testa leggermente girata di lato, fece segno al cameriere di avvicinarsi e offrì da bere a tutti. Si fece portare un caffè corretto all’anice. Ne era certo, pensò Terenzio, la sua immagine gli sarebbe rimasta parcheggiata per sempre nella memoria.

Mai prima d’ora aveva incontrato un personaggio simile. Una via di mezzo tra un gangster e un istrionico teatrante. In un certo senso reincarnava il simbolo di una oramai estinta guapperia che aveva attecchito a inizio secolo.

Poi il parigino si alzò. I tre giovani seguirono il suo esempio. Uno di questi, il più esile, dall’aria stupida e con segni di graffi sul collo, tracce evidenti di qualche rissa recente, si pose a camminare al suo fianco.

Don Mimì parlava con tono rassicurante ma beffardo nello stesso tempo e l’altro ascoltava in silenzio. Dopo pochi metri, si arrestarono all’ombra di un platano, di fronte a una pizzeria sempre molto frequentata. Tutt’intorno, il mercato pullulava di gente che si aggirava affannata tra i banchetti di esposizione.

Terenzio decise di muoversi, attraversò la strada e si avvicinò al gruppetto fermo dall’altro lato della strada.

Con indifferente naturalezza lo raggiunse e, girando lo sguardo dall’altra parte, si finse interessato all’iscrizione riportata su una grossa lastra di pietra scura appesa alla parete dello stabile.

Vi era inciso il nome di Alfonso Maria de’ Liguori e la data di nascita, 27 settembre 1696. Fu come folgorato dall’immagine del suo maestro delle elementari, che gli si affacciò prepotente alla mente. I capelli neri lisci e impomatati, lo sguardo severo e l’abito grigio, sempre lo stesso per anni, sottolineato da una cravatta blu.

La memoria gli disvelò per incanto le decine e decine di poesie di Pascoli, Carducci, d’Annunzio che il maestro De Caro gli faceva imparare a memoria, l’inno di Mameli, le canzoncine di Natale. Rammentò che la più conosciuta al mondo, Tu scendi dalle stelle, era stata scritta proprio da Alfonso Maria de’ Liguori.

Compiaciuto per le reminiscenze scolastiche, resettò i ricordi e distrattamente iniziò a fischiettare il motivetto, mentre con passo deciso oltrepassava il capannello di persone al quale si era aggiunto un altro uomo molto corpulento.

Riuscì comunque a percepire qualche brano della conversazione e capì che il parigino era molto contrariato. Gli occhi erano stranamente luccicanti e il sudore gli imperlava la fonte.

«Ma tu credi veramente che sono l’ultimo dei fessi? Ne ho conosciuti tanti come lui, la prima cosa è il rispetto e dovresti…». Don Mimì si avvide di quel giovane con la barba, con la camicia aperta sul petto tatuato che sgusciava alle sue spalle e non completò la frase. Lo osservò per un attimo con aria interdetta, lo seguì con sguardo indagatore, fino a quando scomparve alla sua vista. 

 

 

 

 

 

 

 

 

da “Sole d’argento”, di Leonardo Mastia, Cairo editore, 256 pagine, 16 euro

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