I politici e i leader istituzionali dell’Unione stanno offrendo il loro contributo alla discussione. Si è dato il via al cosiddetto dibattito sul futuro dell’Europa perché abbiamo bisogno di definire insieme le riforme significative di cui necessitiamo per ricongiungere l’Unione Europea ai suoi cittadini. Se fallissimo in questo compito, la discussione servirebbe a poco.
Contribuendo a quel dibattito, condivido fortemente il punto di vista del presidente Macron secondo cui la nostra Unione deve essere rinnovata e ricostruita dal basso. Magari abbiamo una visione diversa su quanto le nostre ipotesi sulle connessioni tra economia e società debbano essere modificate dall’alto verso il basso attraverso l’architettura istituzionale. La politica del business as usual non può indicarci le sfide da affrontare. Abbiamo l’obbligo verso la storia d’Europa, verso la nostra gente e nei riguardi del mondo intero di esaminare e affrontare queste sfide, e il dibattito su tali istanze deve coinvolgere tutti noi.
Il nostro primo obbligo verso l’Europa è di comprendere la natura del Progetto Europeo, la natura, la forma e le aspirazioni nei riguardi dell’Unione per come la vogliamo, e di spiegare non solo quel che è meglio ma anche quel che potrebbe esser meglio per i nostri concittadini. Sebbene riformare debba essere l’obiettivo trainante, se falliamo nel comprendere o nel riconoscere quanto sta andando storto, la totalità di quel che ha bisogno di essere riformato, finiremo per imboccare la direzione sbagliata.
Dobbiamo comprendere l’Europa in tutta la sua complessità, se vogliamo preservarla e rafforzarla. Dobbiamo soprattutto evitare di restare intrappolati in un unico paradigma di pensiero. Possiamo, ad esempio, pervenire a una rielaborazione delle strategie economiche, riconducendo l’economia all’interno della cultura, all’interno di una politica economica. Centri di apprendimento come l’Istituto Universitario Europeo possono giocare un ruolo necessario e prezioso nello sviluppo di questa consapevolezza. Molte tesi di dottorato sono scritte per aiutarci a comprendere l’Unione Europea, e oggi mi piacerebbe ricordare brevemente solo tre punti che mi paiono fondamentali per capire la nostra Unione.
Primo, dobbiamo comprendere le differenti radici del Progetto Europeo. Che una delle visioni moralmente più avvincenti dell’internazionalismo europeo sia sorta dal movimento della Resistenza italiana sull’isola di Ventotene non sta a significare, di certo, che l’Unione Europea non abbia avuto altre importanti radici rispecchianti altri punti di vista politici, ma significa smentire ogni idea che al suo concepimento il Progetto Europeo riguardasse semplicemente ed esclusivamente capitale e mercati.
Se è vero che la fondamentale Dichiarazione Schuman – stilata nel 1950 dal visionario cristiano democratico che le ha dato il nome – parlava di produzione, è altrettanto vero che parlava di pace; e se si esprimeva su modernizzazione e mercati, raccontava anche di uguaglianza e di miglioramento della qualità della vita e di lavoratori. Di quest’ampiezza di visione oggi necessitiamo. Un’ampiezza di visione che per molti dei nostri concittadini europei abbiamo perso.
Gli obiettivi su cui l’Unione si impegna, ora contenuti nell’articolo 3 del Trattato dell’Unione Europea, riflettono inter alia l’eredità di alcune delle tradizioni più egalitarie e umane che, sebbene abbiano origini non solo confinate in Europa, videro qui un’importante fioritura. Le vaste conoscenze, la filosofia, l’istinto morale e il generoso impulso che contribuirono alla ricchezza del pensiero europeo attingendo alla sua tradizione, hanno prodotto un impulso verso la promozione della giustizia sociale e della sua tutela, verso l’uguaglianza tra uomini e donne, la solidarietà tra le generazioni, verso la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri. Sono princìpi alla radice stessa del Progetto Europeo e raggiungono oggi la loro più piena espressione nella Dichiarazione dei Diritti Fondamentali.
Il secondo punto che vorrei sottolineare, nella speranza di comprendere questa nostra Unione, riguarda il nostro modo di lavorare. La cultura della mediazione, del rispetto e del compromesso propria dell’Unione Europea ci ha accompagnato per così tanto tempo che forse oggi la diamo per scontata. Il processo decisionale dell’Unione Europea è complesso, scrupoloso e può apparire frustrante. Come ogni costrutto umano è imperfetto. Si commettono errori, a volte grandi. Ma il nostro modo di lavorare calmo e rispettoso e, quando siamo al meglio, razionale, sostenuto in modo cruciale dallo Stato di diritto, non dovrebbe mai essere dato per scontato in un continente che fu teatro e origine di tante sofferenze.
Non dovrebbe mai essere dato per scontato da Paesi che, anche recentemente, hanno conosciuto la dittatura. Non può essere dato per scontato dai piccoli Stati che conoscono fin troppo bene le realtà del potere quando non è bilanciato da istituzioni in cui tutti siamo rappresentati e dal vincolo dello Stato di diritto. E parimenti non dovrebbe essere ignorato dai grandi Paesi che potrebbero essere tentati dall’illusione di procedere da soli in un mondo moderno di finanza e mercati globalizzati.
Dovremmo sempre cercare di migliorare il modo in cui lavoriamo nell’Unione Europea, e di essere vigili quando i suoi princìpi vengono messi in questione; ma dovremmo anche celebrarla dando autentica fiducia ai suoi valori e alla loro origine. Non dobbiamo permettere che quei valori di cui i cittadini hanno bisogno siano affogati da una serie di discorsi sconclusionati provenienti da circoli ristretti, per così dire, in grado di sostituire il dibattito tra loro a quello tra i cittadini.
Il mio terzo punto sulla comprensione dell’Unione rimanda a ciò che ho formulato all’inizio, ovvero che le persone, i nostri concittadini, e chi abita questo pianeta devono sempre stare al primo posto nei nostri pensieri e nei nostri sforzi. È quindi imperativo per noi non solo trovare modi migliori di spiegare alla gente come funzioni l’Unione, ma anche vie più fruttuose per imparare dalle persone quale forma di Unione Europea esse vogliano.
L’opportunità del dibattito presente sul futuro dell’Europa non deve andare sprecata. Sono felice che il dibattito pubblico sul futuro venga incoraggiato in così tanti Stati membri dell’Unione e che, in tale contesto, il governo irlandese abbia condotto un dialogo con i cittadini. Non possiamo e non vogliamo nascondere la complessità dell’Unione Europea, ma non possiamo mostrarci indolenti quando c’è da presentare e rispettare tale complessità. La versione data ai media non deve sostituire il discorso da cui dipende il nostro futuro e quello dei nostri cittadini, impedendo la nuova alfabetizzazione economica di cui abbiamo bisogno. La gestione dei media non può sostituire una discussione approfondita forgiata dal sapere e dall’impegno per le generazioni future.
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Solidarietà interna ed esterna sono necessariamente collegate. Uno dei grandi compiti del prossimo decennio sarà quello di raggiungere coesione dentro le comunità e tra quelle della nostra comune casa europea. Soltanto raggiungendo quest’obiettivo – ristabilendo la nostra capacità e volontà di lavorare insieme per condurre una vita piena in tutte le sfere dell’attività umana – l’Unione potrà giocare il ruolo di piena leadership che le compete per affrontare le sfide globali comuni a tutta l’umanità: la domanda pressante per uno sviluppo equo e sostenibile; l’imperativo di rivendicare i diritti umani per chi fugge dalle guerre, dalla persecuzione e dalla fame; e soprattutto l’urgente necessità di affrontare le cause del cambiamento climatico e mitigarne gli effetti.
Il compito più importante è ricostruire una coesione interna basata sul principio di solidarietà. Non ho dubbi che l’Unione Europea abbia in sé la capacità di dare vita a un discorso nuovo che la conduca a migliorarsi e ad essere più inclusiva. Per ottenere ciò dobbiamo, come primo passo, essere pronti a cambiare paradigmi falliti e sbagliati. Non dimentichiamoci, visto che siamo qui a Firenze, il luogo di riposo di Galileo, che più di quattrocento anni fa l’Inquisizione romana ha considerato folle la sua convinzione che la Terra ruotasse intorno al Sole, assurda dal punto di vista filosofico e formalmente eretica.
Di certo chiunque di noi guardi a un’Unione in grado di raggiungere grandi obiettivi entro la fine del secolo non può appoggiarsi a ortodossie fallite, sia in teoria che in pratica. L’intersecarsi di questioni – il cambiamento climatico, la migrazione, il ruolo dello Stato e il futuro della nostra economia – è stato studiato a fondo da studiosi quali il professor Ian Gough, già Jean Monnet Fellow presso questa stessa istituzione. Se siamo pronti a cambiare vecchie certezze non più convincenti, ad avere menti aperte come vuole il sapere vero, allora possiamo preservare e addirittura rafforzare l’immagine dell’Unione Europea. Nel far ciò saremo in grado di dare nuova linfa a un modello in cui persone di altri continenti hanno riposto le loro speranze.
Da “Riprendiamoci le strade d’Europa”, di Michael D. Higgins, a cura di Enrico Terrinoni, Castelvecchi editore. Traduzione di Andrea Comincini. 204 pagine, 17,58 euro.
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