Potenza tranquillaL’allargamento dell’Ue restituirebbe credibilità alla sua azione esterna

Gli aspiranti membri chiedono più di una cornice simbolica. La crisi aperta dall’invasione russa dell’Ucraina ha dimostrato che Nato e Bruxelles possono operare in modo complementare. L’analisi di Antonio Missiroli edita dal Mulino

von der leyen michel nato
European Union

Le diverse letture e definizioni che ne sono state date nel corso dei decenni – «potenza» civile, normativa, trasformatrice, regolatrice – hanno tutte colto un aspetto o una fase della costruzione dell’«Europa» di oggi. Ma è la nozione stessa di power, legata com’è alla nascita e allo sviluppo dello Stato-nazione moderno, a essere difficilmente coniugabile con la complessa realtà dell’Unione Europea di questo scorcio del XXI secolo.

Anche se i tradizionali indicatori quantitativi della «potenza» di uno Stato (popolazione, Pil, spesa e forza militare), sommati e proiettati su scala Ue, potrebbero dare addirittura l’impressione di una superpotenza, la situazione è in effetti molto diversa e, soprattutto, molto differenziata da settore a settore.

Dal punto di vista delle competenze giuridiche e delle procedure politiche, l’Ue appare oggi sempre più come un patchwork in continua evoluzione, tanto da essere stata paragonata (anche per estensione) all’Impero cristiano medievale, con la sua stratificazione/sovrapposizione di autorità spirituali e temporali, di giurisdizioni universali e particolari, di unità culturale e frammentazione politica. […]

Tuttavia, soprattutto dopo lo choc di Brexit, l’Unione beneficerebbe senz’altro di un rilancio del processo di allargamento, che testimonierebbe la persistente attrattività del progetto di integrazione e restituirebbe dinamismo e credibilità alla stessa azione esterna dell’Unione. Una svolta in questa direzione offrirebbe inoltre ai paesi già in lista d’attesa e impegnati nei negoziati una prospettiva di adesione più ravvicinata e tangibile che, a sua volta, galvanizzerebbe i loro sforzi di riforma.

Il Montenegro potrebbe essere il primo della lista: paese piccolo e già membro della Nato, non dovrebbe porre ai 27 problemi insormontabili, soprattutto se il trattato di adesione includesse clausole vincolanti per il controllo del rispetto degli impegni assunti.

La Serbia è già un caso più complesso, ma un’apertura da parte di Bruxelles potrebbe incoraggiare Belgrado ad abbandonare l’equidistanza fra Ue e Russia che ha contraddistinto la sua condotta più recente, oltre a produrre effetti positivi anche in Bosnia. Albania e Macedonia del Nord, infine, sono anch’esse già nella Nato e, con l’avvio delle trattative, avranno forti incentivi ad accelerare la loro «europeizzazione».

Per i tre partner orientali Ucraina, Moldavia e Georgia lo scenario è in parte diverso. Se la situazione determinata dall’invasione russa dell’Ucraina ha facilitato e accelerato la concessione da parte dell’Ue dello status di candidati, i tempi per un’eventuale piena adesione sono invece, prevedibilmente, molto lunghi, senza contare le incognite ancora legate alla loro sovranità territoriale e allo stesso comportamento della Russia, oggi molto più ostile all’Ue di quanto non fosse stata nei decenni passati.

E se al momento nessuno dei tre paesi sembra avere prospettive di entrare nella Nato (la Moldavia non è neppure candidata), un’eventuale futura appartenenza all’Unione includerebbe ora anche la clausola di assistenza reciproca in caso di attacco armato – un dettaglio che non deve essere certo sfuggito a Mosca.

Sul finire della guerra fredda l’allora presidente francese François Mitterrand aveva evocato l’idea di una «confederazione europea» che includesse tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e la stessa Russia. Poco tempo dopo Jacques Delors aveva suggerito un’Europa «a cerchi concentrici», cioè con diversi strati di integrazione e appartenenza.

All’indomani della sua recente rielezione all’Eliseo, Emmanuel Macron – in un discorso tenuto in maggio al Parlamento di Strasburgo – ha per parte sua lanciato l’idea di una «comunità politica europea» che possa offrire a tutti i paesi del continente – Gran Bretagna compresa – una specie di «casa comune» (senza Russia stavolta), a prescindere dalla loro appartenenza all’Unione, riprendendo allo stesso tempo la tradizionale visione francese dei gruppi di «avanguardia».

Gli aspiranti membri, tuttavia, si aspettano e chiedono molto di più di una cornice simbolica e consultazioni informali, che considererebbero probabilmente come un espediente dilatorio. Ed è qui che l’Unione può intervenire ripensando il processo di allargamento come un processo a tappe e non più semplicemente binario (o si è membri, con relativi diritti e obblighi, o non lo si è): un processo, cioè, in cui alla chiusura di determinati capitoli negoziali di natura settoriale potrebbe corrispondere l’accesso a determinati programmi comuni e perfino alle corrispondenti istanze istituzionali (formazioni o gruppi di lavoro del Consiglio), sia pure senza diritto di voto.

Un simile scaglionamento «modulare» del processo di adesione, eventualmente combinato alla cornice diplomatica paneuropea suggerita da Macron, non imporrebbe di mettere mano ai trattati; offrirebbe a tutti i candidati un nuovo percorso con traguardi intermedi visibili e risultati tangibili; riattiverebbe la logica e la dinamica della «regata» che aveva animato inizialmente il big bang; e restituirebbe alla politica di sicurezza comune una strategia coerente (e trasversale) per gli anni a venire nello specifico ambito regionale in cui l’Unione rappresenta, indiscutibilmente, una grande «potenza». […]

La crisi aperta dall’invasione russa dell’Ucraina ha dimostrato che, alla prova dei fatti, Nato e Ue possono operare separatamente – ciascuna in linea con il proprio mandato – ma anche in modo complementare e convergente. Di fronte a una minaccia militare diretta, è stata la Nato a cui si sono rivolti i paesi più esposti – compresi quelli che non ne fanno parte – mentre quelli che non potevano farlo hanno chiesto l’adesione all’Ue. Ad assistere militarmente l’Ucraina sono stati singoli alleati (americani ed europei) ma anche l’Unione in quanto tale. E il supporto dell’Ue e dei suoi paesi membri ai rifugiati civili ucraini è stato immediato e massiccio.

Se la difesa dell’Europa resta ancora e soprattutto compito della Nato, la difesa europea ha di nuovo un suo ruolo essenziale da svolgere, e non più soltanto nel «vicinato» o all’esterno dell’Europa. La vecchia idea del «pilastro» europeo della Nato potrebbe anzi rivelarsi decisiva nel caso in cui Washington – sull’onda di nuove crisi in altri teatri e/o di nuove priorità politiche interne – dovesse o volesse ridurre il proprio impegno e la propria presenza militare sul continente. Paradossalmente, il futuro stesso della Nato potrebbe alla fine dipendere anche dalla capacità e dalla volontà degli europei di difendere l’Europa.

Europa come potenza copertina

Da «L’Europa come potenza. Diplomazia, sicurezza e difesa», di Antonio Missiroli, Il Mulino, 200 pagine, 15 euro