La pandemia è stato un grande momento di riflessione per i dipendenti della ristorazione. Molti hanno scoperto il piacere di avere dei momenti per sé, soprattutto la sera, altri hanno capito la necessità di bilanciare il tempo libero e il lavoro. Questo ha portato diversi cuochi, camerieri e baristi a modificare radicalmente la loro vita, cambiando mestiere e in alcuni casi rimanendo nella propria città di origine, abbandonando le metropoli. Questo fenomeno ha cambiato le dinamiche del settore e gli imprenditori si stanno adeguando alla nuove esigenze dei lavoratori per evitare carenze di personale. Ma come si può restituire appeal al mondo della ristorazione, attrarre nuove risorse e mantenere lo stesso standard qualitativo?
Una risposta ha provato a darla Francesco Armillei, economista dell’Università Bocconi durante il Festival di Gastronomika al Teatro Franco Parenti di Milano nel panel “Da dipendente a risorsa”. «L’aumento del costo della vita e in particolare del prezzo degli affitti incide in maniera rilevante sullo stipendio di tutti, soprattutto di chi lavora nei centri urbani, come Milano. Questo è uno dei fattori che porta le persone a scegliere di rimanere o no in un luogo di lavoro, assieme alla stabilità dei contratti. E purtroppo nel mondo della ristorazione è molto forte la componente di contratti a tempo determinato, vista la natura stagionale del settore. Infatti durante la pandemia non c’è stata una ondata di grandi dimissioni per cuochi, camerieri e baristi. I tanti contratti a tempo determinato sono naturalmente scaduti e poi non sono stati rinnovati».
Ma dove sono andati a finire quei lavoratori? «In parte c’è stata una accelerazione di un fenomeno già presente: i lavoratori della ristorazione sono diventati commessi o braccianti; dall’altro il 2021 è stato un anno particolare perché i tanti concorsi pubblici indetti l’anno scorso hanno portato tanti a entrare nel mondo della scuola, spesso come personale Ata».
Questo esodo ha avuto anche un effetto sulle scelte degli imprenditori, che negli scorsi anni ricevevano decine e decine di richieste, mentre ora si trovano con poche proposte di assunzione ed esigenze sempre più inderogabili. «Molti giovani di questo settore si sono disinnamorati, soprattutto chi lavora in sala, perché non vedono una carriera davanti a loro, come invece capita a chi lavora in cucina e sogna di diventare un grande chef o pizzaiolo. Il compito di noi imprenditori è di far amare di nuovo questo lavoro ed è per questo che da tempo i nostri dipendenti riposano due giorni, e non uno, perché devono amare il lavoro che fanno. E alcuni vedono premiata la loro ambizione: è successo che dei caffettieri diventassero soci operativi di alcune nostre aziende», spiega Ilaria Puddu, manager che in dieci anni ha aperto 55 locali in tutta Italia tra cui Pizzium, Marghe, Gelsomina e Giolina.
C’è anche chi, partendo da un’esperienza di lavoro nel ristorante di famiglia, è diventato in poco tempo imprenditore di successo. È il caso di Claudio Liu, patron di Iyo Experience Milano, il primo ristorante giapponese a ottenere una stella Michelin. Durante il panel moderato dalla giornalista de Linkiesta Lidia Baratta, Liu ha spiegato alla platea quali sono gli obiettivi più prossimi ai quali sta lavorando: dare ai suoi dipendenti due giorni e mezzo di riposo, preferibilmente attaccati, realizzando un regime di turnazione che permetta ai camerieri di avere giorni in cui lavorano solo a pranzo, mantenendo la sera libera: «Quello che offrivamo 4-5 anni fa non basta ai giovani che oggi si affacciano al mondo del lavoro, ma siamo cambiati anche noi: ora abbiamo sempre più bisogno di manodopera specializzata e per questo abbiamo creato una sezione di risorse umane che ci permetta di trovare dipendenti adatti alle nostre esigenze. Anche da noi si fa carriera, siamo felici che uno dei nostri maître gestirà come manager una delle catene di ristorazione più importanti di Singapore».
Le esigenze dei lavoratori sono doverose, ma spesso gli imprenditori della ristorazione si trovano con una manodopera non così all’altezza delle richieste. «Quando non trovi personale devi scendere a compromessi. E i camerieri ora hanno tante pretese, chiedendo stipendi più alti rispetto a qualche anno fa. L’aspetto negativo è che purtroppo molti di questi si presentano senza una formazione adeguata e un atteggiamento adatto al settore», spiega Puddu. «Nelle scuole non si insegna che il lavoro di sala è fatto di relazioni, soprattutto nel mondo del retail. Per questo motivo assumo persone sveglie che hanno grande empatia e voglia di imparare. Bisogna anche capire che la ristorazione non è un lavoro d’ufficio, ha un carattere imprevedibile, soprattutto negli orari serali, che non si può eliminare».
Un altro problema da non sottovalutare è quello legato al costo del lavoro che per alcune imprese del settore diventa insostenibile se si aggiunge l’inflazione galoppante e l’aumento vertiginoso del prezzo di elettricità e gas. Come ricorda la moderatrice Lidia Baratta, lo stipendio medio nel settore è di 1000 euro e negli ultimi mesi sono aumentati i contratti non registrati. Secondo Armilei per risolvere il problema «non basta prevedere sgravi contributivi solo per i neoassunti, ma agire soprattutto per ridurre il peso dei contributi per i lavoratori già assunti, magari abbassando la percentuale dei contributi che deve pagare l’azienda, soprattutto nella fascia under 30. Questa misura darebbe più fiato all’imprenditore, liberando risorse che possono essere messe sia nella busta paga del dipendente, sia servire per assumere nuove persone».
«Un lavoro possiamo farlo anche noi pianificando meglio il lavoro manageriale e aziendale. Oggi sappiamo quanto il food cost pesa nel bilancio e quanto il costo del personale, questo permette decisioni chirurgiche per ottimizzare i costi e decidere se investire nella qualità del cibo, in nuove assunzioni, o entrambe le cose», spiega Liu.