Il Club dei PerdentiQuell’insopportabile mestizia nel guardare un Mondiale così pieno di contraddizioni

Quattro anni di attesa per poi ritrovare la competizione calcistica più importante di tutti nelle mani di uno Stato autoritario, omofobo e criminale. E non c’è nemmeno l’Italia

AP/Lapresse

Quattro anni ad aspettare, a tifare, a qualificarsi chi sì e chi no, a sperare in un sorteggio clemente, un girone abbordabile se non proprio favorevole, a immaginarsi Notti Magiche che neanche questa volta saranno per l’Italia e per i tifosi italiani e amen, che mestizia.

Ad attendere allora almeno per scoprire le nuove nazionali, le magliette, gli inni, una squadra simpatia, il calciatore feticcio. Quattro anni a tenere da parte e pronti la frittatona di cipolle, la familiare di Peroni gelata e il rutto libero. E poi arrivarci spenti, con una certa amarezza, ai Mondiali, i primi in un Paese arabo, in Qatar, già definiti da molti come la Coppa del Mondo più controversa della storia.

Qualcuno lo ha scritto, qualcun altro lo ha detto, che questi Mondiali non li guarderà proprio. Una schiera di appassionati che sembra un partito sull’Aventino per la Coppa del Mondo nell’Emirato. Giù critiche anche alla Rai che ha acquistato i diritti tv per trasmettere tutte le partite, secondo Calcio e Finanza per una cifra tra i centocinquanta e i centosessanta milioni di euro che tra tutti i costi di produzione dell’evento potrebbero arrivare anche a duecento milioni. E senza neanche gli Azzurri.

Oltre chi si schiera per una specie di boicottaggio c’è chi approccia un appuntamento atteso e popolare come pochi altri con una certa amarezza, che fa fatica a esprimere il solito entusiasmo di ogni quattro anni: un “club dei perdenti” che anche a forza di ipertrofico storytelling tra calcio, politica e società, e soprattutto per le denunce di organizzazioni in difesa dei diritti umani e civili, resta frigido.

Il Qatar ha investito circa duecentoventi miliardi di dollari nei Mondiali, l’assegnazione era arrivata nel 2010. E a perdere prima di tutti è stata la Fifa se l’ex presidente Joseph Blatter pochi giorni fa l’ha definita «una scelta pessima, un errore».

A ospitare avrebbero dovuto essere gli Stati Uniti e non il piccolo emirato affacciato sul Golfo Persico, poco abitato, desertico e privo di strutture. L’anno dopo il fondo sovrano Qatar Investment Authority avrebbe acquistato il Paris Saint-Germain, prima che l’inchiesta Qatargate sulla nomina travolgesse lo stesso Blatter e il presidente della Uefa Michel Platini – sospesi dai ruoli dirigenziali ma mai condannati penalmente.

E intanto nell’emirato continuavano ad arrivare lavoratori: da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka soprattutto. Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (Ilo) soltanto nel 2020 ne sarebbero morti cinquanta, cinquecento i feriti durante i lavori di costruzione degli otto stadi e di tutte le infrastrutture collegate all’evento. Un’inchiesta del Guardian ha conteggiato 6.750 morti tra gli operai immigrati e costretti a condizioni di vita e lavoro insostenibili. Amnesty International sostiene la cifra monstre di almeno quindicimila lavoratori morti.

Soltanto nel 2020 Doha ha annunciato l’introduzione del salario minimo, la possibilità per i lavoratori di cambiare occupazione e lasciare il Paese senza il consenso del datore, uno smarcamento dal sistema della “kafala” che gli osservatori internazionali continuano a monitorare e osservare.

I giornalisti sul campo hanno lanciato allarmi sulla censura: hanno accusato i divieti di filmare senza permesso in luoghi pubblici e privati. Rigidi anche i vademecum per i tifosi: decoro nel vestiario, divieto in pubblico di effusioni e consumo di alcolici. E per chi si era distratto l’ambasciatore dei Mondiali ed ex calciatore Khalid Salman ha ricordato alla televisione tedesca Zdf che «essere gay è haram (proibito, ndr) ed è una malattia mentale».

Sarà la storia a giudicare se e come sarà riuscita l’operazione di soft power del Qatar. Lo sport non ha mai mancato all’appuntamento di regalare momenti memorabili anche nelle situazioni più grottesche e torbide. A Norman Mailer una fonte in Zaire raccontò che negli stessi spogliatoi per il “Rumble in the jungle” di Muhammad Alì e George Foreman allo Stade Tata Raphael di Kinshasa erano state condotte delle esecuzioni. La Germania nazista fece sfoggio di tutta la sua grandeur alle Olimpiadi di Berlino del 1936. L’Estadio Nacional de Chile di Santiago dove gli italiani in maglietta rossa vinsero la Coppa Davis era stato utilizzato come campo di concentramento dopo il golpe di Pinochet. Non è una prima volta insomma.

Il club dei perdenti è di quelli che hanno smarrito l’entusiasmo, contesi tra un’eccitazione primordiale per il pallone e il senso di colpa per partecipare in qualche modo a qualcosa di quantomeno macchiato. Quelli che si approcceranno al Mondiale come chi incontra l’ex, e non si dovrebbe, sarebbe uno sbaglio, è chiaro, e invece si finisce di nuovo lì, a letto. L’entusiasmo che viene mangiando, certo, ma come dire: the show must go on, come sempre, sia concessa però un po’ di amarezza. Compassione invece per quei tifosi costretti a rincorrere una birra nel deserto visto il divieto all’interno degli stadi dettato dall’Emirato islamico: scena degna di un film di Mario Monicelli. Altro che familiare di Peroni ghiacciata.

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