Dal punto di vista degli elettori (non del ceto politico!) che cosa è stata Forza Italia al nord? È stata una forza moderata capace di attrarre la maggior parte degli elettori che si riconoscevano nei cosiddetti partiti laici del pentapartito. Una forza capace anche di allargare quel consenso, soprattutto grazie alle capacità, alla notorietà e ai mezzi (economici e mediatici) del suo fondatore. Ma senza quel nucleo (che gli ha fornito anche un pezzo di classe dirigente e le idee migliori) anche il resto non sarebbe arrivato con tanta facilità.
Vediamo un po’ di numeri a conferma (credo) della tesi. Per brevità e facilità di reperimento di dati omogenei prenderò a riferimento il voto in Senato in Lombardia.
1992, ultime elezioni della cosiddetta prima repubblica. Cifre arrotondate.
Elettori 6,4 milioni
Votanti 5,9 milioni (91,9%!)
PSI+PRI+PLI+PSDI = 1,1 milioni
Lega 1,1 milioni
1994, prime elezioni della cosiddetta seconda repubblica. Cifre arrotondate.
Elettori 6,3 milioni
Votanti 6 milioni (95,5%!!)
Polo delle Libertà (FI + Lega) = 2,5 milioni.
Al netto di una possibile crescita della Lega come reazione a Tangentopoli e di una parte di voti “laici” andati alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, possiamo dire che più o meno i voti sono quelli. E la crescita dei votanti (mi limito a evidenziare) ci dice anche che la bufala del maggioritario che favorisce la disaffezione è – appunto – una bufala.
Torniamo alla domanda iniziale: che cosa è stata Forza Italia per gli elettori del nord? Certamente il voto di chi voleva pagare meno tasse (banalizzo), ma anche di chi le ha riconosciuto la capacità di interpretare meglio le istanze di modernizzazione del paese. Esattamente come il Partito socialista italiano di Craxi e in parte gli altri laici. Peraltro è proprio quest’ultima la promessa tradita da Berlusconi, che ha sacrificato questa spinta ai propri interessi (e in parte anche a quelli dei suoi elettori del sud). Molto dopo sarà Gianfranco Fini a provare una operazione simile, fallendo per ragioni che non ha senso approfondire qui.
Quando il centrosinistra è stato una opzione credibile per quegli elettori? Diciamo in Piemonte e in Lombardia, in Veneto no: lì c’è la Lega che già svolge egregiamente questo ruolo. Lo è stata quando è riuscito a portare avanti una proposta politica modernizzatrice senza cedere alle richieste più basse (meno tasse non è mai stato un suo slogan, più per coerenza con l’attenzione ai conti pubblici che per moralismo o contrapposizione di classe come oggi, però) e contemporaneamente senza tralasciare la questione sociale. Nascono da qui le candidature (sconfitte certo, ma comunque competitive) di Riccardo Sarfatti e Umberto Ambrosoli in Lombardia e quella di Sergio Chiamparino in Piemonte.
Adesso che lo smottamento di Forza Italia è in essere (non a caso quasi soprattutto al nord), quei voti si raccolgono parlando a quegli elettori. Non riesce più a farlo la sinistra, che, troppo impegnata a corteggiare Conte, si è fatta trovare impreparata all’appuntamento con le elezioni. Non credo possa farlo Attilio Fontana (che, io non l’ho scordato, prima della sua candidatura in Regione era trattato dalla sinistra come il leghista buono per il suo lavoro nell’Anci, Associazione nazionale comuni italiani), che alla prova del governo di una realtà complessa ha purtroppo dimostrato parecchi limiti che da sindaco non erano emersi.
Può farlo il terzo polo. In parte lo ha fatto per esempio alle politiche.
In un’altra epoca si sarebbe fatta una operazione analoga a quella orchestrata per riprendersi il Comune di Milano con Giuliano Pisapia (ironia della sorte proprio contro Letizia Moratti). Forse pochi lo ricordano, ma Stefano Boeri si candidò a capo della lista del Partito democratico per non disperdere il patrimonio accumulato con le primarie: fece il pieno di preferenze, anche pescando da quel bacino moderato. Pisapia aveva un credito di consenso, stima, rispetto e relazioni proprio nell’area laico-socialista che uso per vincere primarie (vere, anzi verissime) e “secondarie”.
Alle regionali non c’è il doppio turno, per questo serviva un ticket, nelle forme che la fantasia di chi sa far politica trova perché non si perde in rese dei conti e tutela del proprio particulare. Moratti e – perché no – proprio Pisapia: una candidata alla presidenza e l’altro capolista del Pd; oppure Pisapia front man e Moratti capolista del terzo polo. Meglio la prima ipotesi per me, non lo dico per partigianeria ma perché sono entrambi troppo milanesi, ma Moratti ha molto più radicamento fuori da Milano dell’eurodeputato dem. Si può discutere di quale fosse la soluzione migliore, ma quelle erano la alternative da discutere.
Lo dico subito a scanso di equivoci: proporre Pisapia (o una figura analoga) in un contesto identitario non avrebbe lo stesso effetto. La Lombardia non è Milano, sono passati più di 10 anni da quelle comunali, non vedo all’orizzonte un “Boeri” a garantire l’elettorato moderato, con ogni probabilità si cercherebbe l’accordo con i Cinquestelle, determinando un effetto straniamento che solo chi ha scordato le basi delle dinamiche elettorali non riesce a prevedere. Il Pd peraltro si è affrettato ad arroccarsi in una deriva identitaria rifiutando qualsiasi interlocuzione. E fin qui tutto legittimo. Il problema (anche per un’eventuale candidatura Pisapia) è che lo ha fatto con toni che hanno costretto Moratti a formalizzare la candidatura e soprattutto rendono difficile ricucire, non solo con lei, non solo con il terzo polo, ma con quell’elettorato che solo se abbandonasse Fontana renderebbe contendibile Palazzo Lombardia.
Qualcuno dice (e temo non abbia torto) che il Pd lo ha fatto perché ormai subordina qualsiasi scelta (locale e nazionale) al corteggiamento di Conte. Qualcuno dice (e temo non abbia torto) che il Pd lo ha fatto perché prima viene tenere il Lazio, che conta troppo negli equilibri di potere del Pd romano, e solo in subordine togliere la Lombardia al centrodestra, nonostante conti assai negli equilibri di potere del centrodestra nazionale.
Una cosa per me è certa: la classe dirigente del Pd milanese e lombardo continua a farsi dettare l’agenda da Roma, dimenticando che i risultati migliori li ha sempre avuti rimarcando la sua autonomia. Contava meno a Roma, certo; se si esclude la parentesi del 2013, eleggeva meno esponenti locali in Parlamento, certo (peraltro andò bene, ma anche in quell’anno Pier Luigi Bersani scippò molti posti destinati a chi si è misurato con le primarie per il suo listino di nominati). Però sul territorio non si lasciava dettare l’agenda da nessuno. Era il Pd lombardo e non il Pd della Lombardia, come Roma pretendeva si facesse chiamare. E come oggi si fa chiamare per fugare ogni dubbio.