I 55 giorni che vanno dalla mattina del 16 marzo 1978 alla mattina del 9 maggio dello stesso anno, dal momento in cui un agguato politico criminale mise a morte i cinque uomini della scorta di Aldo Moro fino al momento in cui il suo cadavere venne ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa posteggiata a metà strada tra la sede centrale del PCI e quella della Democrazia Cristiana, sono stati fra i più drammatici e fluttuanti nella storia della Repubblica. E dico fluttuanti perché per uno che durante quei 55 giorni volesse ragionare di quanto stava accadendo, ossia di una gang terroristica che deteneva il presidente della Democrazia Cristiana e che minacciava di ucciderlo se non fossero stati liberati tredici dei loro complici detenuti nelle carceri italiane, ciascun minuto poteva farti dirottare da quello precedente nel senso che da un minuto all’altro poteva arrivare una notizia che arrovesciasse il senso di quanto era accaduto fino a quel momento.
In ciascun minuto di quei 55 giorni poteva arrivare un nuovo “comunicato” delle Br o magari una foto che cambiavano l’ordine dei pezzi sulla scacchiera, in ciascun minuto poteva arrivare una qualche risultante dei 72.460 posti di blocco operati dalla polizia in quei giorni – ovvero del controllo di oltre sei milioni e quattrocentomila persone – che permettesse di arrivare alla “prigione del popolo” in cui era detenuto Moro e salvarlo. Niente, di risultati da quei controlli non ne arrivarono.
Le Brigate Rosse sconfissero persino “il calcolo delle probabilità”, scriverà Leonardo Sciascia a tre mesi dalla morte di Moro in quel suo mirabile L’affaire Moro edito da Sellerio nell’ottobre 1978.
Figuratevi quale fosse la condizione intellettuale del sottoscritto trentasettenne al quale un redattore della casa editrice Feltrinelli aveva chiesto per telefono a inizio aprile (mentre mi trovavo nella tipografia dove si stampava il quotidiano comunista romano Paese Sera di cui ero un redattore) di scrivere a tamburo battente il resoconto di una discussione che aveva nel frattempo acceso alcuni fra i più importanti scrittori e intellettuali italiani, se davvero valesse la pena difendere questo nostro Stato dall’attacco frontale di quelle canaglie, “figli nipoti e pronipoti” del comunismo staliniano. Se ne valesse la pena. Di questo dovevo scrivere a tamburo battente, e dunque magari prima di sapere come quella tragedia si sarebbe conclusa. Ci riuscii, quaranta cartelle fitte fitte consegnate nei giorni in cui si era appena saputo della sorte di Moro e che stando ai patti dovevano essere pubblicate seduta stante.
Accadde invece che i redattori della Feltrinelli con cui avevo avuto a che fare non dessero più segno di vita, se non uno di loro mormorare al telefono che i più comunisti e i più ultrarossi di quella loro redazione erano avversi al mio testo. e finché alcuni mesi dopo non mi arrivarono una decina di copie di un libriccino dal titolo “Gli intellettuali e il caso Moro” che portava come sigla editoriale quella della Libreria Feltrinelli, e che se non sbaglio era stato edito in 200 copie. Un libriccino che in questo mezzo secolo sarebbe rimasto semiclandestino o forse clandestino del tutto, salvo che su Amazon ne comparisse ogni tanto una copia a un prezzo più vicino ai 150 che ai 100 euro.
Una di queste copie l’ha comprata un mio vecchio compare, il libraio antiquario bolognese Piero Piani, il quale ha voluto rieditarlo. Bontà sua. È un libriccino che io stesso avevo come cassato dalla mia memoria. Lo tenevo su uno scaffale alto della mia biblioteca, lontano dallo scaffale dove sono riposti i 35 o 36 libri che ho firmato nella mia vita. Era come se quelle sue 64 paginette non mi appartenessero. Né mai più lo avevo preso in mano e riletto. Solo continuava a bruciarmi l’offesa che mi era stata fatta dalla Feltrinelli in quell’autunno del 1978, e non che sia stata l’unica della mia carriera professionale. Il libriccino a questo punto l’ho letto e riletto, un paio di volte. Confesso che non mi è spiaciuto affatto, per quanto turbinosa fosse la materia con cui cercavo di fare i conti. Non mi è spiaciuto affatto il modo in cui portavo i miei 37 anni. Mi ci ero messo in cammino già allora verso il libro che funge da targa a scandire un prima e un dopo del mio destino, il Compagni addio mondadoriano che avevo covato per dieci lunghi anni. Durante i quali non avevo scritto un solo altro libro.
Non che nel giornale in cui lavoravo io fossi in quei 55 giorni particolarmente puntato professionalmente sul ratto e l’agonia di Moro. Li seguivo passionalmente e angosciosamente, da cittadino della Repubblica. Ne scrivevo magari in prima pagina, ma a dare la linea del giornale erano i fondi del direttore Aniello Coppola, il più liberal dei giornalisti comunisti del tempo. Intellettualmente e ideologicamente ero allora uno e bino. Lavoravo e ricevevo lo stipendio da un quotidiano comunista questo sì, ma comunista non lo ero né lo sono mai stato un solo minuto della mia vita.
Il meglio della mia identità lo diceva il fatto di essere, in quello stesso torno di tempo, un collaboratore assiduo del Mondoperaio mensile diretto da Federico Coen, quella bellissima rivista nella cui redazione incontravi Giuliano Cafagna, Giuliano Amato, Luciano Vasconi, Gino Giugni, Luciano Pellicani, Federico Mancini, Ernesto Galli della Loggia, il giovane Claudio Martelli, e ne sto dimenticando, ovvero il drappello di guerriglieri intellettuali che stava riscattando l’identità del socialismo italiano col sottrarla alla strabordante e ultra trentennale egemonia del comunismo togliattiano. E tanto più che questo neosocialismo s’era fatto orgoglioso in politica dov’era rappresentato dalla prorompente personalità di Bettino Craxi, uno che ai comunisti berlingueriani eccome se non le mandava a dire.
Purtroppo la dicotomia che mi provavo a vivere in quel 1978, l’essere io un amico e sodale dei socialisti che lavorava tuttavia in un quotidiano comunista la cui fedeltà al PCI era irrinunciabile, era destinata a non reggere. Gli attriti tra socialisti e comunisti stavano crescendo a vista d’occhio nella scena pubblica italiana, e il “caso Moro” li stava arroventando dato che Craxi mostrava sempre più di volersi discostare dalla linea della “fermezza” cara al PcI, dall’atteggiamento secondo cui mai e poi mai si poteva fare ai brigatisti l’onore di “riconoscerli” politicamente e questo con l’avviare una “trattativa” sulla vita di Moro.
Mai e poi mai il PCI avrebbe accettato di averli di fronte quei delinquenti politici il cui linguaggio altro non era se non quello del comunismo staliniano parlato negli anni Cinquanta dai partiti comunisti di tutto il mondo. Temevano i comunisti italiani che da un qualsiasi raffronto con i terroristi rossi dei Settanta sarebbe emerso come gli uni e gli altri appartenessero a un unico e comune “album di famiglia”.
Eravamo entrambi ospiti in quei giorni di un dibattito pubblico, non ricordo più se in Toscana o in Emilia-Romagna, quando Piero Melograni, uno dei maestri della mia gioventù, mi sussurrò che di volantini scritti più o meno alla maniera di quelli delle Br ne aveva personalmente diffusi tanti ai tempi in cui lui (nato nel 1930) era un giovane militante comunista.
Deve essere stato uno dei primi giorni di settembre del 1978 quando al Paese Sera mi arrivò il pezzo di un “intellettuale organico” del PCI da mettere in terza pagina. Era uno sproloquio contro Craxi nutrito solo di insulti i più banali, nient’altro che della monnezza intellettuale. A metterlo in terza pagina e titolarlo e tutto, mi vergognavo. Lo feci presente al vicedirettore del giornale, il quale mi disse di lasciar perdere, di metterlo e basta. La mia insofferenza cresceva a vista d’occhio. Mi chiamò Aniello Coppola, che era stato mio amico e che qui ricordo con affetto, a dirmi che mi toglievano dal lavoro della terza pagina e mi mettevano a fare non ricordo cosa. Uscii dalla sua stanza, andai a due stanze di distanza dov’era la mia macchina da scrivere e scrissi in un battibaleno la lettera di dimissioni dal giornale. Era il settembre del 1978, sapevo come pagare il fitto di ottobre e novembre della mia casa romana. Non quello dei mesi successivi.
Tutti egualmente brucianti, gli argomenti all’ordine del giorno in quei maledetti 55 giorni erano tanti. Il più angosciante quello se sì o no patteggiare coi brigatisti, se sì o no dare un prezzo alla vita di Moro col mettere in libertà un qualche numero di brigatisti persino colpevoli di reati di sangue come pure le Br avevano chiesto. Se sì o no accettare questo “scambio” di prigionieri costituiva un dilemma atroce e pressoché inedito per una democrazia occidentale del secondo dopoguerra. Era stato il dilemma vissuto dalla Germania Occidentale dopo che il 5 settembre del 1977 i terroristi ultrarossi della RAF (la formazione creata nel 1970 da Hans Baader e Ulrike Meinhof) sequestrarono il presidente della Confindlstria tedesca Hanns-Martin Schleyer dopo aver ucciso il suo autista e i tre agenti.
Da “Gli intellettuali e il caso Moro”, di Giampiero Mughini, Pendragon, 88 pagine, 12,35 euro