La riforma del Patto di stabilità e crescita si avvicina. I governi dei 27 Stati europei – racconta La Stampa – hanno trovato un’intesa di massima sullo schema proposto dalla Commissione, che prevede percorsi di aggiustamento del debito specifici per ogni Paese, definiti su base pluriennale e con la possibilità di ottenere flessibilità in cambio di riforme e investimenti.
È in pratica il modello del Recovery Plan applicato alle regole europee di finanza pubblica. L’accordo sarà formalizzato martedì prossimo dai ministri delle Finanze all’Ecofin, ma il testo di conclusioni avrebbe già ottenuto il via libera da parte di tutti i componenti del Comitato economico e finanziario, l’organo che riunisce i direttori generali dei ministeri e che ha il compito di preparare le riunioni dei ministri.
L’intesa consentirà ora alla Commissione di tradurre in termini giuridici i princìpi concordati dai ministri, con l’obiettivo di arrivare a un’approvazione definitiva entro la fine dell’anno, quando scadrà l’applicazione della clausola di salvaguardia che ha sospeso il Patto. Con ogni probabilità la proposta legislativa vera e propria arriverà tra marzo e aprile, subito dopo il Consiglio europeo. Ma l’accordo tra i ministri renderà molto più semplice anche la discussione tra i leader, che dovrebbero limitarsi a dare il via libera all’intesa.
Il documento che verrà approvato dai ministri ribadirà che ovviamente i parametri del 3% (deficit) e 60% (debito) non cambieranno: per farlo serve una modifica dei Trattati. Ma ciò che cambierà sarà il percorso che gli Stati dovranno seguire per raggiungere tali obiettivi. Le regole attuali prevedono target di riduzione del deficit e del debito standard, definiti a livello Ue e imposti ai singoli Paesi su base annuale, mentre l’idea della Commissione è di passare a un sistema in cui sono i singoli Stati a presentare piani con percorsi di rientro spalmati su più anni (quattro nelle intenzioni di Bruxelles): è il principio della ownership nazionale, la titolarità dell’iniziativa nelle mani dei Paesi.
Non solo: i percorsi di aggiustamento non saranno più definiti sulla base del contestato deficit strutturale (il disavanzo calcolato al netto del ciclo economico e delle misure una tantum), ma sul parametro della spesa primaria netta, considerato molto più «osservabile». I piani dovranno essere valutati dalla Commissione e poi approvati dal Consiglio, esattamente come succede per il Pnrr.
I ministri hanno accettato anche l’idea di introdurre più flessibilità, vale a dire più tempo (fino a sette anni, anziché quattro), per completare il percorso di aggiustamento, in cambio di riforme e investimenti in linea con le priorità Ue. Ovvero transizione ecologica e digitale, ma nel computo rientreranno anche le spese per la Difesa.
In più, i governi hanno voluto introdurre una novità molto importante: i singoli piani potranno essere modificati in corso d’opera per esempio in caso di cambio di governo.
Bisognerà approvare anche la doppia clausola di salvaguardia: una generale, per sospendere le regole in caso di grave crisi nell’intera Ue, ma anche una specifica, che consentirà ai Paesi colpiti da «circostanze eccezionali», indipendenti dalla volontà dei rispettivi governi, di deviare temporaneamente dai percorsi di aggiustamento. Una possibilità che certamente va incontro alle richieste dei Paesi come l’Italia.
Resta, in caso di violazione dei patti, la procedura per disavanzo eccessivo. Sia per i Paesi che sfonderanno il tetto del 3% del deficit, sia per quelli con un livello di debito superiore al 60% del Pil che non rispetteranno il percorso di aggiustamento. L’idea, però, è di ridurre significativamente l’importo delle sanzioni finanziarie: quelle attualmente previste (pari allo 0,2% del Pil) sono considerate troppo alte. Ma in molti a Bruxelles sono convinti che il vero incentivo al rispetto dei percorsi di aggiustamento arriverà dalla Bce: chi sforerà non potrà essere coperto dallo scudo anti-spread.