L’inconsolabilità del maleTutto è già successo, eppure non è facile quando risuccede

Primi, e ultimi, amori giovanili attraversano la campagna jugoslava al tempo della guerra partigiana, raccontata sulla pelle dei ragazzi che la combattono e subiscono, identificandosi con essa. Esce per Bottega Errante una delle opere più riuscite dell’autore

cielo stellato
Foto di Valentin Fernandes su Unsplash

Esisteva il mondo ed esisteva lui, in mezzo non c’era nulla, sempre in contrasto, sempre in disaccordo. Il mondo era contro di lui, lo tormentava, e lui si difendeva, riconoscendolo soltanto nelle disgrazie alle quali si opponeva. Non lo capiva, sembrava amaro d’odio, fin troppo agitato, così inquieto che pensava fosse folle il fatto di continuare a esistere. Non soltanto in guerra. Per quello si isolava quanto più poteva.

E non era solo, la terra viveva con lui, e tutto ciò che nasceva da essa, quelle piante e quelle erbe rigonfie di succo, tenere e buone. Non gli avevano mai voluto del male, non se n’erano mai andate via da lui, non lo avevano mai tradito fintanto che avevano potuto vivere. Solo le persone tradivano. Il mondo tradiva.

E lei faceva parte del mondo. Non aveva imparato ad amare quella terra né quelle piante che fiorivano e si ricreavano per loro. E lei faceva parte del mondo. Troppo pazza, troppo inquieta, insicura su quella terra che poteva essere sua, ma che lei non voleva. Chi poteva comprendere gli irragionevoli?

Perché quella terra non era solo nutrimento, né semplice ricchezza per essere più potenti di altri, né protezione dal dover vagabondare per il mondo, ma era pace, sicurezza, difesa, era il cuore pieno di quel rigoglio, era la completa fusione con quelle radici, con quelle foglie, con quelle floride corolle, con quei succhi che colavano attraverso miliardi di tubicini, con quel miracolo che estraevi dalla terra con le dita, tu, seminatore e testimone della crescita, creatore e beneficiario di miracoli, coinvolto in maniera inscindibile nell’infinito cerchio della riproduzione, della vita, della crescita, del generoso donarsi.

Non toccato dalla morte, non turbato dalla follia del correre dietro a ciò che non si può prendere, custodito da quella pace, appartenente solo a te stesso, protetto dalla pioggia e dal sole, dipendente soltanto dalla terra che non si risparmiava né si pentiva. Lei non lo sa, guarda soltanto oltre me, da qualche parte lontano, dove non ci sono io, né questa terra. Né questa sicurezza. Chissà perché non ama la sicurezza.

L’uomo non è fatto per stare in pace? E qui la pace c’è. Tutto ciò che è fuori dalla nostra portata, tutto ciò che non è completamente nostro, tutto ciò con cui non ci siamo fusi per diventare un’unica cosa è estraneo, di nessuno, non ci protegge. È come il vento, il nulla, non hai niente su cui fermarti, niente su cui appoggiarti, i tuoi occhi sono vuoti, il cuore desolato, resta solo l’inquietudine. È un peccato che tu non lo sappia. O forse lo sai, ma non basta solo saperlo.

Bisogna amare la pace, e tu non puoi farlo. Sei come il resto del mondo, fai parte del mondo, ti sei staccata, la follia ti ha presa e ti sta gettando in braccio a qualche disgrazia. E sai che la disgrazia è inevitabile. Lì c’è il male, il male tuo e del mondo cui appartieni.

Frusciavano le lunghe foglie dondolanti che andavano in alto e tornavano in basso, le punte avevano iniziato a ondeggiare, un silenzioso vento serale passava per i campi di granturco. Lui sorrideva a quel fruscio e a quel movimento lento che gli ricordava se stesso.

Era entrato in quella foresta, gli arrivava fino alle spalle, sarebbe arrivata anche sopra la testa, non spostava con le mani quelle sottili sciabole verdi, le sentiva mentre lo cingevano lentamente, mentre scivolavano lungo il suo corpo, avrebbero tagliato chiunque con i loro margini affilati, ma non potevano fare nulla alla sua pelle.

Si consegnava a quel tocco intimo, dimenticando tutto quello che era fuori dalla densa freschezza che lo inebriava, non era mai tanto in pace con se stesso, così libero, come nei momenti in cui era da solo nei suoi campi, in quella alluvione di piante che traboccavano seguendo la sua volontà, docili nelle sue mani, sottoposte all’ordine che stabiliva e imponeva.

Un ordine cui sottostava lui stesso, al pari delle piante, che persisteva a lungo, e si rallegrava che tutto quel mondo si rinnovasse davanti a lui senza sosta, perché quella era la vita, e così doveva essere, per sempre e da sempre, come per suo padre, e il padre di suo padre, a fatica si separava da quella strana catena di persistenza che si perdeva nell’oscurità del tempo, da quella continuità non toccata dalla morte. Come le piante.

Quel fusto sarebbe morto, ma l’anno seguente al suo posto avrebbe sventolato le sue foglie e i suoi profumi un altro fusto, uguale, e non ci sarebbe stata morte. Non ragionava a fondo su quell’idea di rinnovamento e persistenza, essa esisteva dentro di lui come una verità indubitabile. E lui apparteneva completamente a quel mondo, il suo pensiero si fermava a ciò che lo circondava, a ciò che gli era utile e a ciò che lo minacciava, ma soprattutto viveva dentro di lui un forte legame con quei movimenti semplici, evidenti e chiari ma comunque profondi e incomprensibili.

A volte gli sembrava di vedere suo padre camminare al posto suo per quei campi, lentamente, e quello strano pensiero non lo spaventava, perché anche lui era una spiga di quell’anno e aveva preso il posto di una spiga dell’anno precedente, ed eterna era solo la terra e la vita che nasceva da essa.

Ma la cosa più strana di tutte è che ognuno, in quel susseguirsi e in quel sostituirsi, nel suo breve passaggio, quando sarà il suo turno, porterà con sé la propria pena, e penserà di essere l’unico a patirla, di essere l’unico colpito dalla grandine, di essere l’unico a soffrire quella disgrazia. Ma tutto è già successo, eppure non è facile quando risuccede.

Ognuno di noi vive le cose che hanno già vissuto quelli prima di noi, e la disgrazia di altri non è mai una lezione, e la pena di altri non è mai una consolazione. Gli uomini non si abituano a nulla nonostante tanti altri abbiano vissuto quelle stesse cose molto prima. La guerra c’è sempre stata, da quando esiste il mondo, eppure, quando ricomincia, si soffre. È sempre successo che la sfortuna raggiungesse qualcuno, eppure nessuno si è mai consolato con il pensiero: non sono solo, e non sono né il primo né l’ultimo.

Copertina libro Selimovic

Da “Nebbia e chiaro di luna” di Meša Selimović (traduzione di Dino Huseljić), Bottega errante edizioni, 156 pagine, 17 euro.

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