La crescita un altro giornoIl vizietto tutto italiano di creare tesoretti e rinviare il risanamento dei conti

La sostenibilità del bilancio dello Stato dovrebbe essere tra le priorità della politica, ma evidentemente non è così: uno strumento eccezionale è diventato ormai definitivo, indispensabile per finanziare politiche di spesa, sussidi e sgravi di ogni tipo

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Il debito pubblico italiano a fine 2022 ha toccato il 144,4 per cento del Pil, si tratta della percentuale più alta della storia, escludendo solo quelle raggiunte il 2020 e 2021. Nel 2011, ai tempi della crisi dello spread, era inferiore al centoventi per cento.

Complice anche il fatto che (per ora) non ci sono forti pressioni dei mercati paragonabili a quelle di allora, ci siamo dimenticati di fare caso a questi numeri, che solo pochi anni fa sarebbero apparsi abnormi.

Così la sostenibilità dei conti, anche in prospettiva futura, non è realmente tra le priorità della politica, come del resto non lo è stata nella maggior parte del tempo, tranne che in occasione di qualche emergenza, che per tale motivo si è rivelata inaspettata. Sarà così anche in futuro?

Oggi viene seguito lo stesso copione: se il governo rivede al rialzo la crescita, rispetto a quella che ci sarebbe in assenza di politiche pubbliche (crescita tendenziale), contemporaneamente aumenta il disavanzo primario, ovvero la differenza tra entrate e uscite esclude gli interessi sul debito.

In sostanza il miglior andamento dell’economia, dei consumi, degli investimenti, non beneficia i conti pubblici, come in teoria potrebbe, ma li peggiora perché tutto viene usato per creare il celebre “tesoretto”.

Quest’ultimo ormai è diventato una tradizione italiana, da fatto eccezionale si è trasformato in definitivo, è l’indispensabile strumento per finanziare politiche di spesa, i sussidi e gli sgravi dal grande impatto politico ed elettorale.

Così nel Def del 2023, a fronte di un miglioramento dallo 0,9 per cento all’uno per cento della crescita di quest’anno, l’esecutivo ha preventivato un peggioramento del disavanzo, dallo 0,6 per cento del Pil allo 0,8 per cento. Anche per il 2024 il copione è lo stesso.

Ministero dell’Economia e delle Finanze

Lo aveva fatto in realtà anche il governo Draghi, un anno fa, quando aveva messo nero su bianco per il 2022 una crescita programmatica, dopo gli interventi pubblici, del 3,1 per cento, a fronte di una tendenziale del 2,9 per cento, peggiorando allo stesso tempo dall’1,6 per cento del Pil al 2,1 per cento il gap tra entrate e uscite dello Stato. La stessa revisione avrebbe poi interessato, nelle previsioni dell’esecutivo, anche il 2023.

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Naturalmente spesso sono proprio quelle politiche governative che allargano i disavanzi ad aumentare la crescita, e questa è la principale giustificazione che i politici danno del sistematico rinvio o della revisione del risanamento promesso.

Tuttavia nel Def e nella Nota di Aggiornamento al Def del governo Draghi vi era un peggioramento del disavanzo solo in relazione a quello tendenziale presente nello stesso documento.

Rispetto ai documenti precedenti vi era invece un miglioramento: nonostante l’invasione russa dell’Ucraina e il pesante ridimensionamento delle prospettive di crescita del 2022, il Def dell’aprile dell’anno scorso conteneva una forte riduzione del disavanzo primario, dal 2,7 per cento del Pil al 2,1 per cento rispetto alle stime precedenti al conflitto.

Poi, con la Nadef dello scorso autunno è stato rivisto ulteriormente al ribasso, all’1,5 per cento, in concomitanza con una revisione al rialzo della crescita.

Per quanto riguarda il 2023, invece, nonostante il miglioramento dei dati relativi al Pil, che dovrebbe salire dell’uno per cento invece dello 0,6 per cento preventivato a novembre, il saldo primario è previsto in peggioramento dal Def del Governo Meloni, da un -0,4 per cento del Pil di sei mesi fa al -0,8 per cento attuale.

Il ritorno all’avanzo primario, che aveva caratterizzato la nostra economia tra 1991 e 2019 (con la sola eccezione del 2009), è stato rimandato al 2024, ma cosa accadrà nella Nadef 2023 o nel Def dell’anno prossimo? Vi sarà un ulteriore rinvio? È legittimo sospettarlo.

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Come avvenuto in passato molte volte, specie nei primi anni 2000, l’esecutivo si impossessa dei benefici dei minori interessi sul debito per il 2023, che dopo essere stati visti a lungo in crescita negli ultimi mesi sono stati pronosticati in calo, dal 4,1 per cento al 3,7 per cento del Pil. Per quanto riguarda il 2022 il disavanzo era diminuito anche per compensare il rialzo dei tassi e i conseguenti maggiori costi di servizio del nostro debito.

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Probabilmente tutto questo non sta passando inosservato tra chi deve comprare i nostri titoli di Stato. Così come non passa inosservato il fatto che il miglioramento delle stime sul rapporto tra debito e Pil continua, ma si appiattisce, Def dopo Def, Nadef dopo Nadef, soprattutto per i prossimi anni.

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Pensiamo di poter stare sereni, per citare un ex premier, con un debito stabilmente così alto e magari contemporaneamente rifiutando concorrenza, innovazione, multinazionali, in una parola ciò che ci può fare crescere di più? Maledicendo magari quel vincolo esterno europeo – che è l’unico fattore che non ci ha consentito di fallire – se a un certo punto vorrà intervenire di nuovo per rimediare alla sfiducia che ispiriamo.

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