Viva New York Oltrepassare l’Oceano può essere più facile che attraversare la strada

Gli Stati Uniti sono meno crudeli di quanto crediamo e Gianluca Galletto, in sette lettere indirizzate agli italiani, racconta con un punto di vista inconsueto la metropoli che ha ritrovato una vivacità economica e sociale. Il libro sarà presentato a Milano lunedì 29 maggio, alle 18.30 alla Casa degli Atellani – Vigna di Leonardo, Corso Magenta 65, con il direttore de Linkiesta Christian Rocca

New York dall'alto
Foto di Peter Olexa, Pexels

Chelsea è nella parte Sud di Manhattan, per capirci rimane sotto l’Empire State Building, una volta il più alto grattacielo di New York, e il Greenwich Village, il quartiere passato alla storia come il centro intellettuale della Grande Mela.

Gli italiani, in cerca dei sapori forti e affascinanti di New York, conoscono Chelsea: molti arrivano qui dopo aver letto I segreti di New York di Corrado Augias, oppure dopo aver passato al setaccio i molti siti dedicati alla città, e sanno che questo quartiere è il cugino e omonimo di quello londinese (da cui la celebre compagine calcistica). Lo fondò il capitano britannico in pensione Thomas Clarke che battezzò i terreni della zona dando loro il nome del Chelsea Hospital di Londra, luogo di cura e riposo per i veterani.

Da una parte c’è l’Hudson che, in occasione dell’uragano Sandy dell’ottobre del 2012, ha provocato non pochi problemi agli abitanti (qualche miliardo di danni, allagamenti e morti); a Est, invece, c’è l’Ottava Avenue e tra la 14esima e la 27esima strada si dipana quello che qui chiamano neighborhood, cioè un quartiere vero e proprio (a differenza dei borough che si riferiscono ai più famosi Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx, Staten Island). E che quartiere!

Oggi a Chelsea ci sono 300 gallerie d’arte e case di lusso, oltre al celebre Chelsea Hotel, dove passarono Andy Warhol e Arthur Miller e innumerevoli altre celebrità, e dove si suicidò il leader dei Sex Pistols Sid Vicious. Quell’edificio esiste ancora ed è stato da poco ristrutturato, ma l’aura di quegli anni alimenta ancora il mito del quartiere.

Ho conosciuto l’attuale proprietario dell’immobile in una cena a casa dell’ex sindaco de Blasio. Quando lo stava ancora ristrutturando, mi raccontò che le porte di alcune stanze erano state conservate da un erede a Boston. Ebbene, all’asta sono poi state vendute per cifre folli: quella di Bob Dylan, per esempio, è stata battuta per un valore di oltre 100 mila dollari.

Ancor più suggestiva è la famosa High Line, la vecchia ferrovia sopraelevata ora trasformata in parco pubblico pensile. Un tempo trasportava le carni macellate che partivano dal meatpacking district, subito sotto la 14esima, verso i centri di distribuzione nazionale.

All’epoca frequentavo un bar sgangherato divenuto poi cult, per metà turistico e per metà ritrovo di motociclisti chiamato Hogs & Heifers («maiali e scrofe»), con il soffitto ricoperto di reggiseni appesi che sia le frequentatrici sia le ragazze che servono, appendono dopo aver ballato sul bancone. Non c’è più, come non ci sono più le grandi macellerie industriali.

Ormai qui si trovano soltanto negozi di lusso, qualche residuo di club e nuove discoteche sorte dopo il nuovo millennio, e la nuova sede del Whitney Museum di Renzo Piano, dedicato principalmente alle opere di artisti americani. Qui, a parte lo Standard Hotel e la Soho House, il weekend è pieno dei «ragazzi bene» della city, che hanno sostituito quelli che una volta si chiamavano bridge & tunnel people, e che arrivavano da Brooklyn, Queens e New Jersey prima che anche questi posti divenissero cool: come Williamsburg o Dumbo, a Brooklyn, oggi uno dei quartieri più cari della città (mentre negli anni Ottanta i mafiosi ci disperdevano qualche cadavere).

Quello che nemmeno uno dei più acuti giornalisti italiani come Augias coglie, tuttavia, è che Chelsea resta un quartiere con le stigmate della zona povera e popolare perché qui, a partire dagli anni Trenta nella temperie rooseveltiana post Grande Depressione, furono costruite le prime abitazioni pubbliche per chi era rimasto indietro e non riusciva a trovare un tetto a buon mercato, travolto dalla Grande Crisi.

Il governo federale di allora, guidato da FDR, Franklin Delano Roosevelt, istituì la NYCHA, New York City Housing Authority, dove fino a pochi mesi fa mi sono occupato dello sviluppo di partnership pubblico-private tecnologiche e innovative. La NYCHA non fu l’unica autorità di alloggi pubblici. Dopo di allora furono fondate in molte città un po’ in tutto il Paese.

La NYCHA fa capo alla municipalità di New York (generalmente tutte le altre Public Housing Authorities, o PHA, dipendono dal governo municipale): il sindaco nomina il presidente e amministratore delegato (Chair & Chief Executive Officer) e la maggior parte del consiglio di amministrazione. Essa però, come tutte le altre PHA, è fortemente regolata dal governo federale, che è anche quello che dovrebbe fornire la maggior parte dei fondi pubblici.

Per dare un’idea delle dimensioni, il portafoglio immobiliare della NYCHA consiste in 326 siti (developments), in gergo chiamati projects, per un totale di 2.300 edifici e 180 mila appartamenti. I residenti sono la bellezza di 450 mila (più, si stimano altri 50 mila circa non ufficiali). Si tratta, dunque, del più grande locatore immobiliare residenziale della città.

Quando arrivai qui per la prima volta mi passò per la testa un parallelismo sociologico molto curioso: a Chelsea tra un marciapiede e l’altro, fisicamente, ci sono venti metri, ma dal punto di vista sociale i trenta secondi che servono per attraversare una strada ti portano dalla dimensione del benessere a quella del degrado.

Sono andato indietro negli anni e ho riflettuto: per me, ragazzo di Grottaglie, nella Puglia del Meridione italiano, il salto per attraversare gli oltre mille chilometri che mi portarono a laurearmi alla Bocconi di Milano, tra le migliori università europee, forse è stato più facile di quanto non lo sia qui attraversare la strada per un emarginato di New York. In questo l’Italia e l’Europa sono migliori.

Però, attenzione. Il welfare americano è spesso vittima di un’ingiusta propaganda: sia da parte della destra statunitense, che vuol dimostrare l’inefficienza cronica dello Stato, sia dalla sinistra, che per anni ha voluto attaccare il modello americano in base spesso a letture superficiali.

Una è rappresentata dal triste luogo comune per cui «se non hai la carta di credito in mano, sebbene moribondo, non ti accettano al pronto soccorso»: questo è veramente uno stereotipo falsato dalla cattiva informazione, perché i pronto soccorso sono obbligati per legge a curare tutti ed è frequente il caso di pazienti che, non avendo una polizza privata, vanno a farsi fare gli accertamenti più urgenti gratuitamente proprio nei pronto soccorso.

Certo, poi l’ospedale manda il conto a casa, ma se sei un nullatenente ti lasciano andare, certo non ti perseguiteranno a vita. Lo Zio Sam, insomma, è meno cattivo di quanto si creda comunemente in Italia.

Da “Viva New York”, di Gianluca Galletto, Paesi edizioni, 160 pagine, 15 euro.

Il libro sarà presentato lunedì 29 maggio alle 18.30 alla Casa degli Atellani – Vigna di Leonardo, Corso Magenta 65, Milano. Con l’autore interverranno Stefano Boeri e Cristina Tajani, modera l’incontro il direttore de Linkiesta Christian Rocca.