Le foto sui giornali, spesso, non mentono. Possono sviarci, è vero. Ma, di solito, sono sufficientemente fedeli nel rappresentare la realtà. Siamo noi, lettori a volte distratti, a non cogliere sempre l’essenza del messaggio che lanciano. Eppure fateci caso. Prendiamo Recep Tayyip Erdoğan, uno dei leader più cruciali, e perciò fotografati, del tempo in cui viviamo. Le immagini più recenti mostrano il presidente della Turchia non più da solo, isolato, e meno che mai appartato, ma sempre più spesso circondato – ed è realmente così, con rispetto e timore – da primi ministri o capi di Stato mondiali, sia occidentali sia orientali. Lo scrutano, lo ascoltano, sembrano averne quasi paura. Lui al centro, che alza una mano e con un dito indica qualcosa di indefinito – forse un’accusa, una velata minaccia? –, mentre gli occhi dei suoi interlocutori restano incollati alla sua figura imponente (è alto un metro e ottantacinque). In silenzio. In attesa. Magari non sono d’accordo. Però si guardano bene dal contraddirlo, almeno a tu per tu.
Un uomo al centro. L’analisi della lunga marcia della Turchia – lanciata verso il traguardo dei cento anni dalla sua fondazione, avvenuta il 29 ottobre 1923 – non può dunque prescindere da un ampio capitolo sul politico che, nel bene e nel male, l’ha rappresentata in questo inizio di secolo. Sul personaggio, cioè, che da ben tre decenni – era il 1994 quando Erdoğan vinse le elezioni a primo cittadino di Istanbul – domina la scena politica turca. Un uomo spesso odiato. Altrettante volte, dai suoi fedelissimi, amato. Ma sempre e comunque considerato, con circospezione e prudenza. È davvero così. Su Erdoğan si è detto tutto e il contrario di tutto. E questo sta a significare che «Tayyip bey», cioè il signor Tayyip, come lo chiamano ad Ankara e a Istanbul, ma soprattutto in Anatolia – o anche solo «lui», come negli ultimi anni alcuni si riferiscono al presidente, alzando il dito al cielo, non si sa se per rispetto o per paura –, è di sicuro un personaggio centrale del nostro tempo.
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Alla fine del 2021 Ankara pare davvero isolata – per quanto possa esserlo una capitale che comunque dialoga con Mosca e Pechino –, però a livello occidentale il danno è fatto. Il mondo considera Erdoğan un autocrate. Il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, ex banchiere centrale europeo, un leader di solito misurato per carattere e per mestiere, ad aprile lo definisce pubblicamente un «dittatore, di cui però abbiamo bisogno» (frase da cui nasce un nervosissimo caso diplomatico fra Roma e Ankara).
È la guerra in Ucraina a cambiare le carte in tavola. Quando tutti si rendono all’improvviso conto che la Turchia è centrale, in un quadrante considerato decisivo e che influenza tutto il mondo, Erdoğan è rapidissimo nel mettersi, personalmente, al centro della scena. La sua duttilità stupisce, la sua forza impressiona. Da arcigno difensore del conservatorismo islamico e da repressore inflessibile, il presidente turco si trasforma in arbitro internazionale. Un mediatore subito cercato nei vertici politici, capace anzi di lucrare formidabili intese con la Ue incassando miliardi di euro, diventando infine il negoziatore più accreditato fra Putin e Zelensky, forse più del papa.
A dispetto di tutto e tutti, «Tayyip bey» è oggi il politico più scaltro, l’inventore di una diplomazia multipla che tratta con amici e nemici, incurante delle critiche e delle accuse, capace di volgere a suo vantaggio i golpe e le tante crisi interne, resistendo fino a superare i trent’anni al potere.
Ma il mondo può fidarsi? È la domanda cruciale che ogni osservatore si pone, sul leader turco e sul paese, nel momento esatto in cui un evento inaspettato, un devastante fenomeno naturale come un terremoto di proporzioni enormi si abbatte, la notte del 6 febbraio 2023, nel sud est della Turchia e in ampie zone del nord della Siria, causando oltre 50.000 morti e mettendo in pericolo le scelte urbanistiche, la politica tutta e l’immagine stessa che con pazienza Erdoğan ha costruito nel tempo. Un avvenimento che rischia di delegittimarlo di colpo, sul piano interno e su quello internazionale, proprio quando il leader deve presentarsi di nuovo alle elezioni, legislative e presidenziali, stabilite per il 14 maggio 2023 e già da lui anticipate rispetto alla data originaria del 18 giugno. Molti gli consigliano di farle slittare, piuttosto. Il rischio di perdere tutto è altissimo, andando alle urne quando è trascorso ancora troppo poco tempo dalla tragedia. Ma Erdoğan, da consumato giocatore di poker, sceglie invece di correre ugualmente.
Tratto da “La marcia turca” (Marsilio), di Marco Ansaldo, pp. 176, 18€