Funerale politico. Ma prima e più ancora che tale quello di Michela Murgia è stato un funerale religioso. E lo è stato per sua stessa volontà. Sabato pomeriggio, infatti, nella basilica romana di Santa Maria in Montesanto sono state celebrate le esequie cristiane di chi si è sempre professata credente e, pur critica verso una Chiesa «strutturalmente patriarcale», se ne è sentita parte integrante fino alla fine. Era convinta Michela, e questa consapevolezza s’era rafforzata nel tempo, che si dovesse restare nella Chiesa per operare dall’interno il cambiamento, non già sparare a zero contro di essa dalla facile posizione di fuoriuscita.
Ecco perché sono sembrati una stonatura i tre discorsi di Roberto Saviano, Lella Costa – la migliore, in ogni caso, e la meno citata sui media –, Chiara Valerio davanti all’altare e dopo il rito del valedictio, laddove avrebbero assunto pieno significato e potenza ascoltati all’esterno da tutte e tutti. Ecco perché, in ultima analisi, è sembrata fin troppo scontata l’esecuzione di Bella ciao, che una piazza commossa ha intonato all’uscita del feretro della scrittrice orgogliosamente antifascista, laddove i canti della liturgia funebre e, in particolare, il settecentesco inno devozionale in logudorese Deus ti salvet Maria sono stati invece capaci d’evocare un diverso vissuto inedito ai più: quello dell’antica responsabile di Azione cattolica in Sardegna, della femminista cattolica controcorrente, della mendicante dell’Infinito nel buio della fede.
Una fede, quella di Michela Murgia, mai andata in crisi, perché, come lei stessa aveva spiegato più volte, nutrita dalla lettura delle Scritture e dalla preghiera. «Il mio rapporto con Dio – così poco più di due anni fa – non è conflittuale. E questo è merito di alcune teologhe che mi hanno mostrato, scritture alla mano, un volto di Dio che non discrimina le donne».
Di queste teologhe una in particolare ha così segnato il percorso di vita della scrittrice da esserne espressamente indicata, insieme con don Antonio Pinna, quale seconda dei suoi «maestri» nell’ambito degli «studi teologici»: Marinella Perroni. Cofondatrice del Coordinamento Teologhe Italiane, di cui Murgia era socia honoris causa, e docente emerita di Nuovo Testamento al Pontificio Ateneo S. Anselmo, la biblista romana ha partecipato sabato alle esequie dell’amica “discepola”, leggendo fra l’altro il salmo interlezionale.
In una lunga conversazione telefonica, in cui le riflessioni biblico-teologiche si sono alternate a ricordi personali e a gustose uscite valutative, Marinella Perroni ha osservato come in «Michela fede e teologia fossero assolutamente coincidenti, nel senso che non poteva esistere una fede che non si ponesse domande e una teologia che non fosse frutto anche di una ricerca continua della fede. La domanda era per lei il cuore della fede: significava curiosità, investigazione, ricerca dubbio». Ma non solo: sia la teologia sia la fede di Murgia erano in un rapporto di reciproca deflagrazione: «la domanda doveva mettere in discussione una fede troppo ingenua – una fede o troppo devota o troppo rigida –, la fede doveva accompagnare la domanda perché non fosse fine a sé stessa e mossa unicamente da curiosità».
Aspetti, questi, che in pochi avevano compreso anche all’indomani dell’uscita nel 2011 del pamphlet socio-teologico Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna per i tipi Einaudi. Il libro suscitò grande interesse e clamore, svelando al grande pubblico, ignaro delle nuove prospettive della ricerca mariologica dal secondo ’900 in poi, che Maria era stata una donna libera e coraggiosa, pienamente protagonista delle sue scelte, non già un soggetto disincarnato dalla docilità passiva. Ma non andò esente da numerose critiche per un approccio storico in più punti deficitario e una visione teologica giudicata unilaterale, tanto da ripresentare, sia pur con indubbia vivacità narrativa, un’accolta di stereotipi su donne e Chiesa, già da tempo messi in discussione da un’ampia letteratura internazionale.
Ave Mary è un libro che la stessa Marinella Perroni non hai mai amato. Ma per motivi altri rispetto a quelli indicati. E li spiega così: «Dopo il nostro primo incontro, avvenuto poco prima dell’uscita di Accabadora, le avevo chiesto un testo di narrativa con un retroterra teologico. Quando ci rivedemmo e, tra il reciproco imbarazzo, mi confidò: Non ho il coraggio di dirti che Einaudi non mi molla. Ma il libro è fatto: è su Maria, a me mancò quasi la terra sotto i piedi. Se c’è un tema per noi controverso, è proprio quello della Madonna. Il peso dell’icona mariana sulla vita delle donne è stato molto forte». Michela Murgia, al contrario, era e sarebbe rimasta molto attaccata a un tema, che la portava a riconsiderare la sua esperienza personale di credente, formata inizialmente dalla nonna e dalla zia, e ad analizzare il rapporto tra «donne, fede, Maria» nell’ottica di una «liberazione delle donne, che passa attraverso la messa in discussione di quello che le immagine mariane hanno significato da un punto di vista di precipitato sulla vita di noi stesse».
Ma, proprio grazie all’amicizia e ai lunghi colloqui con la biblista, l’autrice di Ave Mary avrebbe affinato negli anni le proprie capacità teologiche, fino ad arrivare al suo capolavoro in tale ambito: God Save the Queer. Catechismo femminista (Einaudi 2022). Di quel saggio, nato da una sua conversazione con Michela Murgia al Festival InQuiete presso il Cinema romano Avorio (13 ottobre 2019), Marinella Perroni ha scritto la postfazione e ne è, in un certo senso, l’ispiratrice. «Per me – commenta – è il suo libro teologico per eccellenza: esso ha pagine magistrali di teologia trinitaria, scritte nella contemplazione della celebre icona di Andrej Rublëv».
A partire dal suo vissuto Michela Murgia è approdata in God Save the Queer a una matura riflessione di Dio, che è innanzitutto relazione, e, in quanto tale, archetipo di tutte le relazioni umane. Relazioni umane, che non si esauriscono in quelle fondate sul sangue ma si estendono, inglobandole, ai rapporti d’elezione. È la dimensione queer, maturata dalla scrittrice – dopo la raggiunta consapevolezza che si può essere insieme donna e credente, donna e femminista, donna femminista e credente – attraverso la sua famiglia e i suoi quattro «figli d’anima».
Quel queer che, al di là della recenziorità terminologica, è contenutisticamente antico quanto il messaggio cristiano. «La Famiglia di Nazareth – si chiede e chiede provocatoriamente Marinella Perroni per invitare alla riflessione – non era forse queer? La comunità dei discepoli non era queer? L’ultima volta che abbiamo parlato di questo con Michela, è stato in giugno, il giorno prima dell’incontro di Papa Francesco con gli artisti e le artiste. Le dissi: Portagli Vanity Fair e, se dovesse redarguirti, rispondigli che il queer l’hanno inventato i conventi. Il queer è tipico della tradizione cristiana. Si pensi ai rapporti di rottura del gruppo dei discepoli di Gesù coi ruoli convenzionali, sulla base delle parole dello stesso Cristo: Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli?. Si pensi a Paolo, che applica il lessico familiare alla comunità cristiana. Insomma, non c’è nulla d’inventato in quello che ha detto Michela. Con la sua famiglia queer, che cosa ha fatto di diverso rispetto al Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli?».
Senza utilizzare un tale termine nel messaggio letto all’inizio della messa esequiale, il cardinale Matteo Maria Zuppi, che non ha dimenticato di rilevare come non sempre ci fosse stata consonanza di vedute tra lui e la scrittrice, ha però parlato di Gesù che visita Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, «non come ospite ma come familiare, fratello d’anima che ci fa credere ai legami d’anima, perché siamo generati non dal sangue ma dallo Spirito. E per questo la Chiesa è famiglia di Dio, con i legami di amore che Lui per primo viene a creare, pensandosi in relazione con noi e chiedendoci di viverli tra di noi e con il prossimo, cioè l’altro». È, a ben vedere, la sintesi della riflessione teologica di Michela Murgia. Ma anche dell’ultimo tratto di vita, in cui la scrittrice, in modalità che hanno stupito i più, ha vissuto la malattia e si è preparata cristianamente alla morte.
«In questi ultimi mesi Michela Murgia – commenta a Linkiesta Emma Fattorini, storica contemporaneista alla Sapienza – ha direttamente testimoniato, direi più che nei suoi libri sulle questioni religiosi, una spiritualità profondamente incarnata sul senso della vita e della morte. Senza alcun cedimento a forme di autocommiserazione e di dolorismo, ma neppure di martirio eroico. Il cancro “non è un nemico da distruggere” ma è parte di noi, come la morte che ci accompagna è parte integrante del vissuto di ogni persona. Ecco perché trovo bellissimo che Murgia, consapevole di come la storia “sarebbe andata a finire”, abbia fatto quello che aveva sempre desiderato di fare nell’ultimo anno e mezzo di vita: dalla partecipazione alle sfilate al viaggio sull’Orient Express».
Ma insieme, come ha ricordato il cardinale Zuppi, «ha conservato fino all’ultimo la passione per gli altri, per chi soffre in guerra. E ha cercato la vicinanza dei suoi “affetti di anima”, la loro presenza». Secondo il parere della studiosa, Michela Murgia, che non ha mai nascosto la paura del dolore, è riuscita in ciò grazie a un percorso mai rinnegato di fede in Cristo: «Mi ha colpito che alle sue esequie si sia letto il brano evangelico, peraltro da lei accuratamente scelto, di Gesù simboleggiato dalla porta, attraversando la quale si entra e si esce con la sicurezza di trovare pascolo. Brano, che, guarda caso, è integralmente riportato e commentato in God Save the Queer. La porta è fortemente evocativa di quella morte che per una donna credente come Michela non è stata la fine di tutto ma il passaggio dal non ancora al già».