La transizione dalla guerra al governo impone che i talebani finanzino il loro esecutivo e impediscano all’economia afghana di implodere. Sono nella stessa situazione in cui si erano trovati negli anni Novanta, quando non erano riusciti a compiere tale transizione. L’economia afghana aveva allora solo il 20 per cento delle dimensioni attuali, e la popolazione si aspettava poco o nulla in termini di servizi.
Nell’Afghanistan di oggi, il compito è infinitamente piú difficile, perché l’economia è molto piú grande e complessa, la gestione del governo costa molto di piú e la popolazione esige piú servizi. Le risorse interne disponibili per soddisfare questi bisogni si sono sempre rivelate insufficienti, o hanno suscitato troppa opposizione politica per essere utilizzate in modo sicuro. Cosí, per piú di un secolo e mezzo, l’Afghanistan è stato e rimane tuttora uno stato che vive di rendita e attinge a risorse esterne per mantenersi in vita: un autentico dilemma per qualsiasi governo che desideri ignorare tout court il mondo esterno.
Storicamente, i talebani si sono mostrati poco disposti ad accettare i compromessi che i finanziatori e le istituzioni internazionali chiedono in cambio di quelle risorse, ma il fatto di esserne privi mette a rischio l’emirato. Essi si sono inoltre completamente alienati il principale finanziatore internazionale dell’Afghanistan, gli Stati Uniti, senza che nessun altro sponsor sia riuscito a prenderne il posto.
Il motivo per cui la questione risulta cosí critica si può comprendere osservando la durata dei governi afghani. Anche in tempi di conflitto, i governi che godevano del sostegno internazionale sono durati molto piú a lungo di quelli che ne erano privi. Il Pdpa, sostenuto dai sovietici, durò quattordici anni, e la Repubblica Islamica dell’Afghanistan, sostenuta dagli americani, restò in vita vent’anni, ed entrambi caddero solo quando i rispettivi finanziatori si dissociarono o chiusero il rubinetto.
Al contrario, i governi isolati degli anni Novanta, come quello dei mujaheddin di Rabbani e l’originario emirato islamico del mullah Omar, durarono rispettivamente solo quattro e cinque anni. In tempi di pace, come nei quarant’anni di regno di Zahir Shah, gli aiuti esterni erano sí alla base dello stato afghano, ma non erano cosí fondamentali per mantenere la stabilità del governo.
L’odierno Afghanistan dipende talmente tanto dalle risorse esterne che senza di esse la sua economia collasserebbe: nel 2020, gli aiuti internazionali rappresentavano il 42,9 per cento dei 19,8 miliardi di dollari di Pil dell’Afghanistan. E la dipendenza dagli aiuti esterni non era circoscritta solamente al governo di Kabul. I talebani avevano condotto l’insurrezione con il denaro e le armi provenienti da Pakistan, Iran, Russia e donatori privati dell’area del Golfo.
Altrettanto significativo è il fatto che nelle aree da loro governate i talebani si affidassero «ai fondi e alle strutture del governo e delle Ong per quanto riguardava la sanità, l’istruzione e i progetti di sviluppo». Questo permise loro di utilizzare le entrate fiscali locali per finanziare le operazioni militari, senza dover fornire in cambio alcun servizio, se non a livello giudiziario.
Purtroppo per i talebani, i finanziatori disposti a sovvenzionare insurrezioni a basso costo non hanno alcun incentivo a continuare a sostentare governi ad alto costo (gli Stati Uniti avevano versato denaro ai partiti dei mujaheddin quando questi combattevano i sovietici, ma si erano rifiutati di aiutare il loro governo dopo la caduta del Pdpa). I talebani hanno estremo bisogno di tale sostegno, considerando che gli Stati Uniti hanno sospeso tutti gli aiuti con i quali avevano finanziato tre quarti delle spese generali del vecchio governo.
Per di piú, Washington ha sequestrato i beni del vecchio governo e ha imposto una serie di sanzioni che rendono difficile se non impossibile ad altri finanziatori internazionali fornire all’Afghanistan qualcosa di piú di un aiuto umanitario d’emergenza. Per i talebani non ci sono grandi speranze di trovare un sostenitore internazionale disposto e in grado di finanziare il loro governo.
Il Pakistan ha un deficit di bilancio troppo alto per svolgere questo ruolo. La Cina potrebbe essere disposta a stringere accordi economici con un governo talebano, ma non a sovvenzionare un regime le cui convinzioni islamiche sono molto piú radicali di quelle che essa stessa sta cercando di reprimere a livello nazionale nello Xinjiang. Dopo nove mesi di potere, l’emirato islamico dei talebani non ha ricevuto il riconoscimento diplomatico da parte di nessun paese, nemmeno dal Pakistan, tantomeno aiuti sostanziali, fatta eccezione, come ho detto, per quelli umanitari di emergenza.
Anche se la situazione potrebbe cambiare, i talebani si sono per ora rifiutati di soddisfare, in cambio di aiuti esterni, le richieste internazionali di ampliare il governo e modificare le politiche sulle donne, perfino quando gli afghani hanno iniziato a morire di fame durante l’inverno del 2022.
Alla fine di un anno di siccità che ha devastato l’economia delle zone rurali e in seguito all’emorragia di denaro e posti di lavoro che ha impoverito la popolazione delle aree urbane dopo la presa del potere da parte dei talebani, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) ha ammonito che il paese era sull’orlo di una «miseria quasi universale, con un tasso di povertà del 97 per cento entro la metà del 2022». Affrontare una crisi di questa portata dopo vent’anni di crescita economica e di standard di vita piú elevati è un punto di partenza poco invidiabile per qualsiasi nuovo governo.
© 2010, 2023 Princeton University Press
All Rights Reserved
© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Da “Afghanistan. Una storia politica e culturale” (Einaudi), di Thomas Barfield, 512 pagine, 35 euro