Il gruppo raccolto intorno a Elly Schlein incarna ormai chiaramente i caratteri di una sinistra che sui giornali si definisce spesso come «radicale» o «massimalista», due termini che identificano altrettante culture politiche che però non sono azzeccatissimi – li usiamo tanto per capirci –, il massimalismo soprattutto c’entra storicamente poco e si adopera come equivalente di non riformismo. Claudia Mancina, al recente convegno dei liberal che si è tenuto come ogni anno a Orvieto, ha osservato che lo «spostamento a sinistra» del Partito democratico schleiniano è in realtà uno slittamento populista cioè, provando noi a dire in che senso, nella facile riduzione a slogan di questioni complesse, nel ritrovato mito della piazza, nello smarrimento della vocazione di governo.
Attraverso due questioni si legge bene il quasi incompatibile divario politico e culturale che separa la linea del gruppo dirigente a quella, molto minoritaria, del convegno di Orvieto (mentre nel frattempo la cerniera riformista che fa o faceva riferimento a Stefano Bonaccini appare in bilico tra sostegno critico alla leader o esplicita differenziazione).
La prima questione riguarda la linea da tenere dinanzi all’offensiva della destra sull’elezione diretta del premier. Com’è stato notato da Stefano Folli, e in modo molto penetrante ieri da Angelo Panebianco, la posizione di Schlein e della segreteria è quella delle barricate e di un sostanziale aventinismo, con motivazioni anche serie, che però elude il punto di fondo: ritiene, il Pd, che bisogna modificare la Costituzione per garantire maggiore stabilità ai governi oppure no?
Al di là degli aspetti tecnici, che sono comunque di grandissima rilevanza, pare di capire che, senza dirlo, il Pd ritenga che in questa situazione di dominio della destra non convenga al Paese, prima ancora che alla sinistra, rischiare di dare troppo potere al (alla) presidente del Consiglio. Il risultato di questa, chiamiamola così, intransigenza sta nel votare contro e sperare che il referendum bocci Meloni e tutto il cucuzzaro. È chiaramente una linea populista nel senso che si affida interamente alla volontà popolare bypassando il ruolo della politica, della mediazione, del Parlamento.
La strategia di Orvieto è tutt’altra. Come ha spiegato Stefano Ceccanti, il Pd non deve sedersi su una posizione di conservatorismo istituzionale che neghi la necessità di una riforma seria ma avanzare una sua proposta, quella del cancellierato alla tedesca, e per uscire dal dibattito tra esperti ha proposto un preciso articolato di legge, preludio a una trattativa, un tavolo istituzionale, con la maggioranza. Peraltro, come ogni politico sa, si tratta di incunearsi nelle contraddizioni della maggioranza, che non mancheranno, e questo lo si può fare solo con una proposta alternativa.
Nel merito, l’idea di un premierato non elettivo (Sabino Cassese) che non si discosta molto dal progetto-Ceccanti potrebbe essere un punto di mediazione tale da svitare un referendum che spaccherebbe il Paese.
Su questo punto delle riforme, in controluce emerge tutta la distanza tra populismo del no e riformismo del sì. Il secondo aspetto si vedrà meglio più avanti, ma già se ne indovinano i contorni, ed è la questione delle liste per le elezioni europee.
Certe possibili candidature che si vociferano danno bene il senso di un gruppo dirigente che privilegia i campioni d’immagine e di movimentismo in sintonia con la cultura politica americana della segretaria e con i retaggi di una vecchia sinistra di matrice extraparlamentare: dove una volta il Partito comunista italiano candidava Altiero Spinelli e Natalia Ginzburg, oggi il Pd avrebbe in mente di presentare Patrick Zaki e Roberto Saviano (che non accetterà mai) o Chiara Valerio, la matematica-scrittrice amica di Michela Murgia, e Cecilia Strada, la figlia del fondatore di Emergency, che sulle questioni internazionali è a sinistra di Nicola Fratoianni.
Mentre bisognerebbe cercare di darsi una fisionomia seria, il Nazareno va a caccia di volti di quella sinistra populista – cosa diversa da una sinistra popolare – che una volta crollato il grillismo e soprattutto ogni residuo di renzismo nel Pd non ha più dubbi sul dove guardare: alla nuova leader molto di sinistra.
Questo volto del Pd è culturalmente, ma anche nella sua postura, molto lontano dal profilo di una forza di governo. Punta a rappresentare il disagio sociale e l’antiamericanismo in vario modo declinato, fino all’astioso prendere le distanze (eufemismo) da Volodymyr Zelensky e dalla guerra ai tagliagole. Non ha più molto del Pd di Walter Veltroni, di Dario Franceschini, di Matteo Renzi, di Enrico Letta, persino di Nicola Zingaretti. È il Pd populista. Che preferisce l’immagine alla politica, l’Aventino alla battaglia.