Il Re delle due SicilieL’agrigentino che ha portato l’Expo in Arabia Saudita

Giorgio Re, trentaseienne di Agrigento, ha coordinato il voluminoso dossier della proposta di Riyad, che ora punta a un nuovo progetto per la sua terra. Nel solito psicodramma nazionale, spuntano i complotti e il solito neo dei diritti umani tirato fuori solo in caso di necessità

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Dai, posate i fazzoletti, basta piangere, che in fondo la vittoria è anche un pochino nostra. Perché c’è un bel pezzo di italico tricolore nella vittoria di Riyad per l’organizzazione all’Expo, l’Esposizione Universale, edizione 2030. Un successo inaspettato, perché in tanti erano convinti che vincesse Roma, e invece la Capitale italiana è arrivata addirittura terza, e via con le polemiche.

La votazione decisiva è avvenuta a Parigi, nella sede del Bureau International des Expositions (Bie), l’organizzazione che gestisce le Esposizioni universali, e che assegna le varie edizioni attraverso un voto in cui ogni Stato dà un voto. A Riyad sono andati centodiciannove dei centottantadue voti disponibili, la (per noi) semisconosciuta città sudcoreana di Busan è arrivata invece seconda con ventinove voti. Roma è arrivata terza, ottenendo appena diciassette voti. Pochini.

Ma se vogliamo consolarci, teniamoci stretto questo pezzettino d’Italia, e per di più di Sicilia, che festeggia la vittoria con i carissimi nemici arabi. Perché a dirigere l’orchestra della candidatura di Ryad c’è un giovane imprenditore di Agrigento. Si chiama Giorgio Re, ha trentasei anni, e con il suo socio, Roberto Daneo, ha coordinato il voluminoso e vincente dossier della proposta dell’Arabia Saudita (titolo: “The era of a change”) che poi si è aggiudicata l’Expo.

Nel video circolato sui social della reazione della delegazione araba, a Parigi, all’annuncio della vittoria di Riyad, lo si vede esultare come a una finale mondiale. «D’altronde – racconta mentre attende il volo per tornare in Italia – per noi è stato un lavoro lungo ed intenso, cominciato nel 2021». Con la sua società Re si occupa proprio di questo, di pianificazione strategica. Ha cominciato con il Padiglione Italia nell’Expo di Milano 2015,  lì ha conosciuto il suo futuro socio, e poi, evento dopo evento, è arrivato a Riyad: «Abbiamo puntato molto a presentare Riyad come un nuovo mercato, una nuova frontiera con le sue ambizioni di prosperità per tutti». Una mission non semplice, per tanti motivi, non fosse altro che si sono trovati a lavorare proprio in competizione con l’Italia: «Non è stato facile, ma abbiamo cercato di fare bene il nostro lavoro fino in fondo, perché la professionalità viene prima di tutto».

Fatto sta che loro hanno vinto la sconfitta di Roma è diventata il solito psicodramma nazionale. I commenti vanno da «L’Italia non conta più nulla del mondo» alle accuse in pieno stile pasoliniano («Io so…») del comitato organizzatore di Expo Roma 2030: «Non ho le prove, ma qualcosa è successo».  Giorgio Re non vede misteri ed ombre, invece, e rivendica il suo ruolo, da italiano, nella vittoria di Riyad: «Ho coordinato la redazione del dossier, abbiamo scritto di nostro pugno le diverse pagine che lo hanno composto, abbiamo coordinato decine di professionisti eccellenti, gruppi di lavoro e commissioni che hanno messo il cuore in questo sogno. Tutte le polemiche non mi interessano, anche perché noi siamo dei tecnici, non facciamo valutazioni, né conosciamo i dossier degli altri».

Resta quel piccolo neo, diciamo, dei diritti umani, argomento ripreso in queste ore in Italia pressoché da tutti, nel commento della vittoria dell’Arabia Saudita (dove, bisogna ricordare, si gioca però la Supercoppa italiana di calcio, dal 2019…). L’ex sindaca di Roma, Virginia Raggi, presidente della commissione capitolina Expo 2023, ad esempio: «È chiaro che stavolta hanno vinto logiche non basate su inclusione e sviluppo, che il rispetto dei diritti umani e civili non sono stati considerati una priorità». Re, progettista al soldo dei sauditi, cosa ne pensa? «Non mi sento all’altezza di inserirmi in questo dibattito – si schernisce – perché, ripeto, io sono un tecnico, e ho già lavorato con le candidature più diverse da Matera ad Astana. Posso solo dire, sulla base della mia esperienza, iniziata a Milano nel 2015, che eventi come l’Expo servono proprio ad aprirsi allo scambio culturale, prima ancora che commerciale, con tutte le conseguenze positive che questo tipo di aperture comportano».

Chissà se un giorno le strade di Re si incontreranno magari con la Sicilia, da dove è partito per frequentare l’università a Milano, senza fare più ritorno: «Mi piacerebbe contribuire alla progettazione di un grande evento in Sicilia, dice, e sono a disposizione delle istituzioni». Re ricorda che la Sicilia non è nuova ai palcoscenici internazionali, e tra l’altro ha organizzato in passato grandi eventi. Cita diversi mondiali, le Universiadi. In effetti, la Sicilia ha sempre la tentazione della grandeur. Qualche anno fa, nel 2016,  il forzista ed ex viceministro Gianfranco Miccichè, ai tempi presidente dell’Ars, propose la candidatura della Sicilia tutta per le Olimpiadi 2024, dopo che l’appena eletta Sindaca di Roma, Virginia Raggi aveva annunciato di voler ritirare la candidatura della sua città (ah, i corsi e ricorsi della storia…).

«Proporre qui le Olimpiadi – diceva convinto Miccichè – significherebbe dare un segnale al mondo intero, uno scossone all’economia con possibilità di ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture dell’isola, volano per la crescita e l’occupazione». La proposta fu addirittura rilanciata dal Pd, ma abortì ancora prima di diventare cosa seria. Anche perché era (ed è) ancora vivo proprio il ricordo delle famigerate Universiadi (le olimpiadi delle formazioni universitarie di centosettantacinque Paesi) del 1997. Furono stanziati cinquecento miliardi di lire, ma si arrivò all’evento con diciotto impianti su ventotto non terminati, con alcune gare che addirittura saltarono e gli atleti che anziché essere ospitati nel villaggio olimpico furono sistemati negli alberghi.

Il capolavoro fu il campo di baseball a Palermo: la disciplina in quelle edizione Universiadi non era neanche prevista… Il quotidiano inglese Daily Telegraph in un reportage parlò di «studenti abbandonati a se stessi», ricostruendo le vicende di nuotatori giapponesi senza piscina per allenarsi, calciatori inglesi chiusi fuori dal campo, tennisti cinesi assetati per mancanza di acqua. E questo per tacere delle inchieste legate agli altri grandi eventi, Su tutti una citazione merita l’America’s Cup a Trapani, nel 2005,  quella famosa per la battuta dell’allora Ministro delle Infrastrutture Lunardi (tornato sulla scena oggi, a ottantaquattro anni, come consulente del suo successore Matteo Salvini): «Con la mafia bisogna convivere».

Ma Giorgio Re rappresenta un’altra generazione di siciliani, cittadini del mondo e che davvero credono nelle potenzialità dell’isola: «Quello che manca – spiega – è un piano di sviluppo. Si pensa, spesso, al grande evento come un punto di arrivo, invece l’idea è vincente se è un punto di partenza per lo sviluppo di un territorio o di una regione, se è collegato alle infrastrutture, al miglioramento della vivibilità». Come la vittoria Riyad insegna.

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