La nostra Carta Costituzionale è il frutto di un lavoro di sintesi tra le diverse culture politiche antifasciste: quella cattolica, quella socialista, quella comunista, quella azionista. I nostri Padri Costituenti dovevano costruire un insieme di norme che potessero garantire insieme la funzionalità del sistema e la vita democratica in un contesto di valori condivisi. Fu un lavoro di compromesso alto che risentiva fortemente del passato ventennio fascista, così da disegnare un sistema di poteri diffuso e di controllo reciproco.
La domanda che si posero i Padri Costituenti riguardò l’immutabilità della Costituzione ed evidentemente, essendo sicuramente più lungimiranti dei nostri attuali politici, conclusero di non essere infallibili, che si può migliorare qualsiasi lavoro e nel contempo che ogni modifica dovesse essere attentamente valutata: non espressione di una maggioranza politica, ma di una larga maggioranza coinvolgendo in certe situazioni anche i cittadini. Nasce cosi l’articolo 138 che prevede la possibilità di modifiche alla Costituzione. L’articolo parla di leggi Costituzionali e anche di revisione della Costituzione.
Il processo prevede due approvazioni a maggioranza assoluta e un eventuale referendum se la maggioranza parlamentare è inferiore ai due terzi. Un equilibrio tra la necessità di coinvolgimento più largo possibile nel rivedere la Carta Fondamentale e la giusta previsione che nulla è perfetto e tutto è perfettibile. L’articolo parla espressamente di “revisione” quindi prevede anche una trasformazione profonda della stessa Carta.
I nostri Padri Costituenti non pensavano quindi di aver scritto la Costituzione più bella del mondo, né pensavano di essere sei novelli Mosè che ci consegnavano Tavole della Legge immutabili. La nostra Costituzione nei fatti è stata modificata per ventuno volte e profondamente rivista con la modifica del Titolo V nel 2001. Una premessa indispensabile per confrontarci con tutti coloro che ritengono un attacco alla democrazia qualsiasi tentativo di revisione.
Negli anni Ottanta si cominciò a parlare di Grande Riforma: le rapide trasformazioni sociali, la necessità di trasferire in declinazioni operative gli enunciati teorici e nel contempo la necessità di rendere più efficiente l’azione di governo ispirava l’idea di porre mano a un progetto di revisione sostanziale, anche allora il mantra fu quello di paventare un attacco alla democrazia, non se ne fece nulla, così come fallì la Bicamerale negli anni Novanta. Fallirono anche la riforma Berlusconi del 2005/06 e il progetto di riforma Renzi del 2016.
Senza entrare nel merito delle succitate proposte, contro queste riforme si è mobilitato un fronte contrario che ripeteva la teoria dell’attacco alla democrazia e l’umiliazione della politica. La necessità di una revisione costituzionale che appariva evidente negli anni Ottanta del Novecento, ai giorni nostri appare ancor più necessaria.
Il nostro mondo vede il potere spostarsi sempre di più verso aggregazioni trasversali, le media company hanno bilanci e potere di influenza superiori a qualsiasi governo, si muovono rapidamente in qualsiasi scacchiere, l’intelligenza artificiale stravolge il mondo del lavoro e della comunicazione. Le programmazioni sono stravolte continuamente con modalità e tempi che fanno della velocità e dell’imprevedibilità la loro cifra. Le risposte che le architetture costituzionali del Novecento propongono hanno evidenti limiti nella loro lentezza, farraginosità e hanno anche perso il loro originario pregio di rappresentatività. Le opinioni si formano e si spostano rapidamente, i sondaggi le forme di fact checking sono incontrollate e muovono più delle forze politiche, le forze intermedie tradizionali hanno una gravissima crisi di rappresentanza.
Di fronte a tutto questo, le giaculatorie che vedono in ogni proposta un attacco a quella che con una esagerata autoreferenzialità viene definita la Costituzione più bella del mondo appaiono come visioni nostalgiche senza consapevolezza delle sfide future che ci propone il mondo contemporaneo.
La proposta ultima del governo Meloni, al di là del merito, ha il grave difetto di voler costruire un sistema su misura per l’attuale presidente del Consiglio senza dare risposte alle gravi crisi dei sistemi politici. È necessario che la politica la smetta con le vecchie risposte dettate da un automatismo ideologico e si confronti seriamente su argomenti esiziali per il futuro della stessa capacità della politica di avere un ruolo. Una profonda revisione delle architetture costituzionali è necessaria, cosi come è necessario inquadrarla in un più ampio sistema che in un prossimo futuro preveda una ridistribuzione di funzioni con gli Stati Uniti di Europa. Le elezioni europee dovrebbero servire anche a confrontarci su questi argomenti, purtroppo anche in questo caso è evidente l’arretratezza della nostra classe politica.
Alessandro Palumbo è presidente del Centro Studi Morris Lorenzo Ghezzi