Fidelizzare o escludere?Il caso delle Birkin di Hermès apre a nuove riflessioni sul concetto di attesa nella moda

Due clienti arrabbiati al punto da sporgere denuncia e un brand il cui modus operandi, che ha portato i suoi prodotti a una desiderabilità estrema, è ora a giudizio. Il risultato è che l’affaire Hermès domina le polemiche sui social

AP Photo/LaPresse

I fatti: due clienti, Tina Cavalleri e Mark Glinoga, hanno denunciato Hermès International in una corte federale della California del Nord. L’accusa è di aver approfittato del suo potere di mercato, che risulta dalla «desiderabilità unica, dall’incredibile domanda e dalle disponibilità limitate delle sue borse Birkin con il fine di aumentare i prezzi, e quindi i profitti, delle stesse borse, e contemporaneamente spingere anche le vendite di altri prodotti del marchio», come citato nel pezzo di The Fashion Law, sito di settore che si occupa del diritto applicato alle questioni modaiole. Nella pratica, Cavalleri e Glinoga sostengono che il brand ha messo in piedi uno «schema che obbliga i clienti ad acquistare prodotti secondari, prima che venga loro data l’opportunità di acquistare una Birkin». 

«A differenza di molti altri prodotti venduti dal brand», si legge nella denuncia, «le borse Birkin non possono essere acquistate online e raramente sono in esposizione in negozio. Gli acquirenti non possono, semplicemente, entrare in store e comprarle. Solo chi è ritenuto degno si vedrà mostrare una Birkin in una stanza privata della boutique». 

Sulla base di cosa il brand stabilisce, quindi, chi è all’altezza di possedere il manufatto? Secondo i querelanti, la differenza è data dalla «cronologia d’acquisto», dato che «bisogna aver comprato in precedenza altri prodotti secondari, come scarpe, sciarpe, cinture, gioielleria e oggetti per la casa. Solo dopo essersi così costruiti una reputazione presso Hermès sarà loro offerta la possibilità di acquistare anche una Birkin». Una teoria che nella denuncia è sostenuta da alcune dichiarazioni che, secondo i querelanti, sono state fatte in più di un’occasione da addetti alla vendita in negozio o associati al brand. 

Citando alcune leggi – nello specifico lo Sherman Act, il Cartwright e il California’s business and professional code – i querelanti ritengono quindi che il brand si sia «consapevolmente dedicato a pratiche scorrette, predatorie e anticompetitive, con il progetto, il prodotto e l’effetto di mantenere illegalmente il suo potere di mercato e il monopolio», invitando altri consumatori che sentono di aver subito gli stessi torti a unirsi alla loro class action, nella quale chiedono un decreto ingiuntivo e un risarcimento economico per i danni subiti. 

Una battaglia legale appena iniziata – la denuncia è stata depositata alla corte della California questo martedì – sulla quale il brand francese non ha voluto rilasciare alcun tipo di dichiarazione e che porta a delle riflessioni sul concetto di desiderabilità, ciò che in fondo muove i consumatori all’acquisto, proprio in ragione di una scarsità del prodotto sul mercato. Il Business of Fashion (BoF) ricorda che in passato anche il brand di orologeria Rolex è stato accusato di un comportamento simile – spingere i clienti a comprare prodotti del suo marchio fratello, Tudor, per poi permettere l’acquisto di un suo cronografo; dall’altra parte, però, il giornale riporta anche una dichiarazione del brand, fatta a loro, lo scorso anno, nella quale si sostiene che tale pratica – quella di permettere l’acquisto di un prodotto a condizione di comprarne un altro – è «severamente proibita». Il ceo Axel Dumas (sesta generazione della famiglia Hermès – Dumas) ammetteva però che i negozi sono incoraggiati a verificare i potenziali acquirenti e garantire l’acquisto solo a “clienti reali”, per scoraggiare il fenomeno della rivendita e di conseguenza di un mercato parallelo. 

Di certo è storicamente noto che a causa della produzione molto limitata delle Birkin – frutto di un lungo processo artigianale che ne decreta, in qualche modo, la sua unicità, e di conseguenza il prezzo – esiste una lista d’attesa. La pr Samantha Jones in Sex and the City già sul finale degli anni Novanta si infuriava con un addetto alle vendite del negozio che le metteva davanti una Birkin solo per dirle che la lista d’attesa per ottenerla era di cinque anni, e si risolveva a fingere che l’oggetto fosse in realtà destinato alla sua cliente Lucy Liu (una delle Charlie’s Angels del reboot dei primi 2000, che in quella puntata interpretava se stessa).

Se l’esistenza di una lista d’attesa è comprovata – e i tempi per ottenere una borsa variano, secondo le nostre fonti, da uno a tre anni circa –, garantire il prodotto con una maggiore priorità a clienti abituali, fidelizzando gli stessi e facendoli sentire speciali, è una strategia utilizzata da moltissime maison del lusso. L’obiettivo è conservare un rapporto di elezione con una tipologia di acquirente che, secondo uno studio dell’agenzia di consulenza di Bain & Company, guida una grossa fetta delle vendite. 

Secondo un loro report del 2022, è il due per cento dei clienti, una percentuale risicata di Vic (Very important clients, chi compra con costanza nel corso dell’anno, spendendo cifre importanti) a guidare il quaranta per cento delle vendite. Sono poi molteplici gli studi di McKinsey & Company che, nel post pandemia, hanno stabilito come a soffrire sia stato il cliente occasionale, chi compra la “it bag” e poi è raro rivedere in negozio per acquisti di altro tipo. A sostenere una tesi simile è stato anche Michael Klinger, Ceo di Mytheresa, il portale dello shopping di lusso, in un’intervista sul numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2023. Di conseguenza diventa di ancora maggiore importanza, sosteneva il Ceo, concentrare i propri sforzi su chi ha dimostrato costanza nell’acquistare, tramite una tipologia variegata di “trattamenti di favore”, come la priorità su una serie di articoli presenti sul sito.

Di recente ai Vic sono state dedicate anche boutique a parte: è il caso di Gucci Salon, aperto a Los Angeles lo scorso aprile. Un negozio dove «nulla costerà meno di quarantamila euro e si arriverà fino a tre milioni con le creazioni di alta gioielleria», sostenne all’epoca il Ceo di Kering, conglomerato che detiene la proprietà di Gucci, François-Henri Pinault.

«La lista d’attesa esiste, ma non è obbligatorio aver comprato altri prodotti del brand per arrivare ad una Birkin», dice un acquirente che desidera rimanere anonimo. «Ho acquistato questo mese di marzo a Milano una borsa Bikini in pelle marrone. Ho fatto richiesta circa un anno prima: a farlo è stato mio marito, che voleva regalarmela per un compleanno importante. Ci è stato detto che era possibile esprimere tre o quattro preferenze di colore e di galvanica della metalleria. Quando e se arriva qualcosa che si avvicina alla tua richiesta la boutique ti chiama. Nè io e mio marito avevamo in precedenza acquistato nulla da Hermès. La settimana precedente all’acquisto mio marito è stato chiamato dalla boutique: al telefono non ti viene anticipato cosa è arrivato, ma ti invitano a recarti in negozio e visionare l’articolo per poi acquistarlo, se incontra le tue aspettative. Nella specifica situazione ci siamo ritrovati in store nello stesso momento nel quale una signora, che sosteneva di possedere già una ventina di borse del brand, ha visto la borsa che intendevo comprare, e ha iniziato a urlare, dicendo che essendo lei una cliente abituale che da anni aspettava quel colore, doveva avere la precedenza. È dovuto intervenire il direttore del negozio per allontanarla e lasciarci decidere in pace. E, alla fine, ovviamente l’abbiamo presa».

Sarà però la corte federale della California del Nord ad avere l’ultima parola in merito alla questione, che mette insieme alcuni argomenti attualmente al centro della discussione nel mercato del lusso. L’attesa di un prodotto che a ogni titolo è un investimento, che viene poi spesso passato in eredità e che richiede tempistiche specifiche per essere realizzato (di cui si producono pochi esemplari all’anno, forse per preservarne l’aura di irraggiungibilità), è essa stessa parte dell’esperienza? Oppure, come sostengono gli americani querelanti, sinonimo di quel “tutto e subito” del capitalismo magico introiettato nell’Italia degli anni Ottanta dalla figura del cumenda Zampetti dei film di Vanzina (“Lavoro guadagno, pago, pretendo”), chi è disposto a spendere tali cifre deve vedersi accontentato nel tempo più breve possibile? 

Se in generale, inoltre, il concetto di “attesa” è stato recentemente criticato da un op-ed del direttore del Bof Imran Amed – qui però si parlava delle file che i clienti devono fare per poter solo accedere ad una boutique, definite “non di certo un’esperienza di lusso” – è parimenti esecrabile dover attendere un anno, o forse più, per poter acquistare un oggetto? Dare una priorità – e quindi una corsia d’accesso privilegiata e, a volte, perfino dei luoghi di acquisto diversi – a chi è già da tempo un cliente è una strategia di fidelizzazione tutto sommato comprensibile? Oppure si tratta di una pratica che esclude tutti gli altri? Attendiamo (con ansia) il responso.

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