In BonafedeI volenterosi complici di Messina Denaro e quei pochi che non ci stanno

Gli ultimi arresti dei fiancheggiatori del boss mafioso hanno fatto pensare a una rete di contatti ramificata in tutta Italia e invece fanno tutti parte dello stretto cerchio di complici locali che hanno protetto in Sicilia la sua latitanza trentennale

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L’architetto, funzionario in un comune del Nord, il tecnico radiologo di fiducia, il volenteroso prestatore di sim telefoniche. Hanno creato grande eccitazione gli ultimi arresti sui fiancheggiatori e complici di Matteo Messina Denaro, il boss stragista latitante per trenta anni, preso il 16 gennaio 2023, gravemente malato, e morto dopo otto mesi. Dal giorno della sua cattura, grazie agli appunti, ai pizzini, alle lettere e agli scritti di varia natura trovati nella sua abitazione, gli investigatori hanno arrestato una serie di persone, ritenute pedine nello scacchiere del boss. Dalla sorella Rosalia (per lei, chiesti venti anni nell’ultima udienza del processo con rito abbreviato che si tiene a Palermo), fino all’autista, ai suoi figli, alla maestra Laura Bonafede (una vita, la sua, di devozione al boss e alla causa mafiosa), e la figlia Martina, anche lei maestra, giusto per fare sfregio di quella famosa e abusata frase di Gesualdo Bufalino: «La mafia sarà vinta da un esercito di maestre di scuola elementare». Come no.

Questi arresti hanno tutti un denominatore comune: riguardano persone non al di sopra di ogni sospetto, ma ben al di sotto. Parenti intimi del boss, esponenti di famiglie alleate storiche dei Messina Denaro. Con tante domande che arrivano spontanee: ma davvero, tutto qui? Cioè, lo cercavamo in tutto il mondo, e lui era nella sua terra, a Campobello di Mazara, a condurre la sua vita tranquilla nel paese più intercettato d’Italia, protetto da gente della sua famiglia, che gli investigatori conoscevano bene. Già, c’è qualcosa che non torna.

È per questo che gli ultimi arresti sono stati salutati quasi con entusiasmo, da parte della stampa. D’altronde, hai addirittura un architetto, tale Massimo Gentile, che sta al Nord, che cura appalti pubblici. Che goduria. Quante connessioni si possono fare, quanto si può scrivere. Repubblica aveva già le idee chiare dopo un minuto dall’arresto: «Messina Denaro, in manette l’architetto che gestisce gli appalti del Pnrr a Limbiate (Monza)». Da questo titolo sembra che, in pratica, tutti gli appalti del Pnrr passino, nel Nord Italia, dal nodo cruciale di Limbiate, comune di trentaquattromila abitanti, quindici km a nord di Milano.

E tutti questi appalti sono gestiti da questo architetto, anzi, da questo grande architetto, longa manus di Messina Denaro in Lombardia. Solo che, a ben guardare, Gentile non solo è un altro soggetto al sotto di ogni sospetto (è sempre uno della famiglia Bonafede – Gentile, cugino del killer Salvatore Gentile, marito di Laura Bonafede, che per conto di Messina Denaro ha compiuto due omicidi e si è preso altrettanti ergastoli), ma viene arrestato non per faccende legate al suo ufficio, ma perché dieci anni fa, nel 2012, prestò la sua identità a Messina Denaro per l’acquisto di una Fiat 500. Nulla a che vedere, pertanto, con appalti, Pnrr e infiltrazioni al Nord. Cosimo Leone, invece, il secondo degli arrestati, è un tecnico radiologo in servizio all’ospedale di Mazara, che, secondo l’accusa, si è messo a disposizione del boss durante il suo ricovero per operarsi per il tumore al colon, a Novembre 2020. Ah, Leone è cognato di Gentile. Siamo sempre lì. 

Sullo sfondo resta la vita tranquilla di Messina Denaro. Andava in banca, faceva i suoi giri in moto nelle belle domeniche di primavera, aveva il suo giro di amicizie e frequentazioni. Qui faccio autopromozione, perché “Una vita tranquilla” è proprio il titolo del libro che ho appena pubblicato per Zolfo, e scritto con Nello Trocchia, per raccontare tutti i misteri sulla latitanza e la cattura del boss. Titolo indovinato, mi dicono in tanti. Non è una questione di essere indovini, ma di essere dentro le cose di mafia. Nella ricostruzione post mortem della sua vita, il boss stragista Messina Denaro ci sta dimostrando che la forza della mafia è proprio il suo essere nella quotidianità, nella vita di ogni giorno, accanto a noi (noi illusi, a cercarla di fronte, questa mafia, in una sorta di campo avverso). Il suo parlare a tutti, in maniera interclassista, il suo mettere insieme tutti.

Continueremo a scoprire questa complicità di piccolo cabotaggio, spiccia, di prossimità – come ci raccontano tutti gli escamotage necessari per comprare una Fiat 500 – e non verremo mai a sapere di quell’ampio raggio di coperture istituzionali che hanno permesso la latitanza di Messina Denaro – lunga trenta anni, non dimentichiamolo mai, non trenta giorni: trenta anni.

Non è una questione di disfattismo: è la storia della mafia a raccontarcelo, da un secolo e mezzo a questa parte, come ce lo dimostra la serie di tutte le catture mancate di Messina Denaro negli anni, della mano invisibile che ha trasferito investigatori, impedito indagini, fatto saltare all’ultimo dei blitz decisivi, dato istruzioni su come riconoscere le cimici. Questa rete di protezione è impossibile da svelare, perché è il cuore stesso della mafia, ma non da oggi, da sempre. 

Anche questa sanità pubblica straordinariamente efficiente per Messina Denaro, che garantisce un’operazione delicata per un tumore a pochi giorni dalla diagnosi, appartiene alla normalità della mafia. Perché è la normalità di ognuno di noi. Chi ha a che fare con la sanità pubblica, in Lombardia come in Sicilia, sa come funziona: liste d’attesa interminabili, prenoti oggi una Tac e ti dicono che la prima data è nel 2025. Allora hai due possibilità (escludendo la terza, e cioè aspettare e morire): rivolgerti a un privato, a carissimo prezzo, o chiedere a un amico, un parente, un gancio. Se hai conoscenze, accorci i tempi. E la Tac la fai, non magari domani, ma entro un mese si. 

A questo proposito, fanno eco le parole dei pm di Palermo, nell’ordinanza che ha disposto gli ultimi arresti. Scrivono: «Una totale omertà avvolge come una nebbia fittissima tutto ciò che è esistito intorno alla figura del boss, ai suoi contatti, ai suoi spostamenti e alle relazioni che ha intrecciato nei lunghi anni di clandestinità. Si tratta di un’omertà trasversale – spiegano i magistrati – che di fatto, allo stato, ha precluso agli inquirenti di avere spontanee notizie anche all’apparenza insignificanti: nessun medico, operatore sanitario o anche semplice impiegato di segreteria che abbia avuto contatti con Messina Denaro Matteo (alias Bonafede Andrea), ha ritenuto di proporsi volontariamente per riferire ai magistrati o alla polizia giudiziaria di essersi occupato, a qualsiasi titolo, del latitante o comunque rivelare quanto appreso direttamente, o anche solo indirettamente, sulle cure prestate all’importante capo mafia».

I pm parlano dell’esistenza «di una vasta, trasversale e insidiosissima rete di sostegno, ancora in minima parte svelata, che ha consapevolmente supportato le funzioni di comando del Messina Denaro, consentendogli una latitanza sul territorio, con documenti, auto e moto, esami clinici e contatti nel mondo sanitario». Si parla ancora una volta di omertà, di complicità. E tutto rimanda all’immagine della Sicilia del «niente vitti, niente saccio» (Non ho visto niente, non so niente, ndr). 

Ma anche questa considerazione è sbagliata. Va detto, infatti, che in questi mesi, il lavoro investigativo è stato agevolato da diverse persone che si sono presentate spontaneamente, dai Carabinieri, per dare un loro contributo di conoscenza. Se abbiamo scoperto il “secondo covo” del boss, è stato perché due operai della ditta dei traslochi hanno riconosciuto alla tv il cliente per il quale avevano spostato mobili e masserizie qualche mese prima a Campobello di Mazara. Quindi è vero che c’è l’omertà (se no non ci sarebbe la mafia, va detto, lo prevede anche l’articolo 416bis del codice penale), ma c’è anche chi vede, sente e parla. 

Anzi, se una riflessione va fatta, è questa: come è sempre avvenuto nella storia della mafia, a essere davvero omertose sono le classi medie, quelle agiate. I medici, gli avvocati, gli architetti. È la classe media che ha sempre protetto la mafia in Sicilia, non certo i contadini, protagonisti, nel tempo di tante battaglie antimafia finite nel sangue. Sono i medici della “mafia bianca”, gli avvocati delle mille trattative, gli architetti dei piani regolatori di comodo, gli ingegneri degli abusi personalizzati. Sotto i colpi dei loro mezzi favori hanno permesso che la mafia nel tempo prosperasse. E sono stati, un secolo fa, come ieri e oggi, i volenterosi complici di Cosa nostra. 

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