In quanti altri modi i francesi devono ripetere che non vogliono i fascisti al governo? Il fragoroso No della Francia a Marine Le Pen e ai suoi gerarchi ricorda certamente i vecchi ballottaggi persi dalla famiglia Le Pen, ma soprattutto le amministrative di qualche anno fa quando il partito della destra nazionalista era quasi ovunque in testa e sembrava già destinato a cambiare il destino della République, ma al ballottaggio non ha vinto da nessuna parte, perdendo venti regioni a zero.
In Francia c’è ancora il senso dello Stato, si può scherzare, si può anche giocare col fuoco, ma al momento decisivo i fascisti non passano (e nemmeno i comunisti).
Parigi per sua fortuna non è Roma che cade sempre ai piedi del primo scalmanato che passa, il quale si prende la ola di applausi di una classe dirigente che si informa su Dagospia e si sfama alla greppia dello Stato.
Le Pen, dunque, è arrivata terza, una débâcle senza precedenti; Macron secondo, il suo azzardo è stato premiato; la variegata alleanza di sinistra è arrivata prima, ma con il populista radicale Jean-Luc Mélenchon pare senza la maggioranza di eletti nel Fronte popolare che ha guidato in questa tornata elettorale, visto che secondo le proiezioni di ieri sera i socialisti avrebbero conquistato più o meno lo stesso numero dei seggi e anche i verdi avrebbero ottenuto un bel po’ di deputati.
Difficile ora fare un governo, ed è probabile uno scenario bloccato con gli affari correnti ancora per un po’ guidati dal premier macroniano Gabriel Attal, ieri dimissionario, quindi una situazione ideale per l’Eliseo. Ma è ancora possibile che «gli adulti» dell’Assemblea Nazionale (come li ha definiti il nuovo volto della area socialista Raphaël Glucksmann) trovino un accordo per lasciare le estreme a piedi ancora una volta e formare un governo. In ogni caso, ora il compito dei democratici, dopo aver fermato la destra estrema, è quello di fermare il populismo anche antisemita della France Insoumise di Mélenchon («a ogni costo», ha scritto Bernard-Henry Lévy), provando a separarlo dalla ragionevolezza dei socialdemocratici. Vedremo se Macron ci riuscirà.
Intanto in soli tre giorni abbiamo assistito al Grande Spettacolo della Democrazia Liberale, con la vittoria dei seri ed equilibrati laburisti di Keir Starmer in Gran Bretagna, e con il no ai fascisti in Francia (lo spettacolo è stato decisamente migliore a Londra, dove l’uscita di scena del premier conservatore Rishi Sunak è stata un capolavoro di eleganza e di fair play; a Parigi, invece, il delfino lepenista Jordan Bardella ha parlato, come un Lavrov o un Trump qualunque, di ribaltamento della volontà popolare: cher monsieur Bardella, è stata proprio la volontà popolare, espressa dai suoi connazionali con una partecipazione storica al ballottaggio di ieri, a decretare che gli elettori anche questa volta preferiscono chiunque, anche un comodino, a voi).
A Parigi, a Londra, in mezza Europa, e ovviamente anche a Washington e a Kyjiv si festeggia. A Mosca si registra un’altra sconfitta, vai a sapere se al Cremlino esiste un ufficio per chiedere la restituzione dei rubli investiti male.
In Italia abbiamo poco da festeggiare, perché come disse tempo fa Giuliano Da Empoli siamo «la Silicon Valley del populismo», la start up di qualsiasi scemenza politica del pianeta, prima la proviamo noi e poi la esportiamo nel mondo.
Il mondo poi non si beve sempre tutto, oppure trova gli anticorpi in fretta. La tre giorni anglo-francese adesso deve imbaldanzire e inorgoglire l’Occidente, incoraggiare e ridare speranza ai liberali (con una prece per le miserie dell’ex Terzo Polo italiano), perché forse non è detto che sia tutto perduto.
Forse il mondo libero deve imparare a essere meno pessimista: la storia non sarà finita, ma non è nemmeno arrivato il momento di dichiarare la fine alla democrazia liberale. La lezione che arriva dalla Gran Bretagna e dalla Francia è quella di lagnarsi di meno e di smettere di autoflaggellarsi, perché è vero che l’elettore razionale non esiste più da tempo, ma non è detto che sia stato necessariamente sostituito dall’elettore masochista. Coraggio, quindi. È ancora lunga. Dopo gli inglesi e i francesi, il 5 novembre tocca agli americani.