Fiore di lotoLa notte del 2016 in cui Kamala Harris promise di lottare per l’America (e spiegò come pronunciare il suo nome)

Nella sua autobiografia "Le nostre verità" (La Nave di Teseo), la vice presidente degli Stati Uniti racconta cosa provò alla notizia della vittoria di Trump, nello stesso giorno in cui fu eletta al Senato. E come invitò i suoi sostenitori a non mollare in tempi bui: «Noi siamo migliori di così. Gli americani sanno che lo siamo. Ma dovremo dimostrarlo. Dovremo combattere per questo»

LaPresse

La mattina, il più delle volte, mio marito Doug si sveglia prima di me e legge le notizie a letto. Se lo sento emettere dei suoni – un sospiro, un lamento, un sussulto – capisco subito che tipo di giornata sarà. L’8 novembre 2016 era cominciato bene – era l’ultimo giorno della mia campagna elettorale per il seggio senatoriale. Lo trascorsi incontrando quanti più elettori possibile e, naturalmente, votai io stessa alla scuola del quartiere in fondo alla nostra strada. Ci sentivamo piuttosto bene. Avevamo affittato una grande sala per la festa della Notte delle mie elezioni, con uno spettacolo di palloncini che non aspettava altro che di iniziare. Ma prima sarei andata a cena con la mia famiglia e gli amici più intimi – una tradizione che risaliva alla mia prima campagna.

Un sacco di persone erano accorse da tutto il Paese, perfino dall’estero, per stare con noi – le mie zie e i miei cugini, i miei suoceri, i suoceri di mia sorella e altri ancora, tutti riuniti per quella che speravamo sarebbe stata una notte speciale. Stavo guardando fuori dal finestrino della macchina, riflettendo su tutta la strada che avevamo percorso, quando udii uno dei caratteristici lamenti di Doug. «Questa devi vederla», disse, passandomi il cellulare. Stavano arrivando i primi risultati delle elezioni presidenziali. Stava succedendo qualcosa – qualcosa di brutto. Quando arrivammo al ristorante, il divario tra i due candidati si era ridotto considerevolmente e anch’io iniziavo a preoccuparmi. I pronostici del New York Times indicavano che sarebbe stata una notte lunga e oscura.

Ci accomodammo in una saletta appartata del locale. Le emozioni e l’adrenalina stavano salendo, ma non per le ragioni che avevamo immaginato. Da una parte, mentre i seggi in California erano ancora aperti, eravamo ottimisti sulle mie possibilità di successo. Eppure, per quanto ci preparassimo a festeggiare quel successo frutto di un duro lavoro, nessuno di noi riusciva a staccare gli occhi dagli schermi che, Stato dopo Stato, mostravano numeri che raccontavano una storia preoccupante.

(…) Dopo cena ci dirigemmo nel luogo dove avremmo trascorso la Notte delle elezioni, dove si erano riunite per la festa più di mille persone. Non ero più una candidata. Ero una senatrice eletta – la prima donna nera del mio Stato, e la seconda nella storia americana ad aver conquistato quel ruolo. Ero stata scelta per rappresentare oltre trentanove milioni di persone – circa un americano su otto – con origini e percorsi di vita diversissimi. Era, ed è tuttora, un onore straordinario, capace di farmi sentire così piccola.

I miei sostenitori batterono le mani ed esultarono, mentre li raggiungevo nel camerino dietro il palco. La situazione era ancora molto surreale. Nessuno di noi aveva elaborato appieno ciò che stava accadendo. Si misero in cerchio attorno a me e io li ringraziai per tutto quello che avevano fatto.

Eravamo come una famiglia, e avevamo fatto insieme un viaggio incredibile. Alcune delle persone nella stanza erano state con me fin dalla mia prima campagna per diventare procuratore distrettuale. Ma adesso, quasi due anni dopo l’inizio della nostra corsa al seggio senatoriale, dovevamo affrontare un’altra battaglia assai impegnativa.

Avevo scritto un discorso basato sul presupposto che Hillary Clinton sarebbe diventata la nostra prima presidente donna. Nel salire sul palco per salutare i miei sostenitori, lasciai perdere quella bozza. Osservai la sala. Era strapiena di gente, in platea e in galleria. Molti erano scioccati dai risultati che stavano seguendo a livello nazionale.

Dissi al pubblico che avevamo un compito da svolgere, e che la posta in gioco era alta. Dovevamo dedicarci a riunire il Paese e a fare quello che era necessario per proteggere i nostri valori e ideali fondamentali. Nel porre una domanda, pensai ad Alexander e a tutti i bambini: «Ci ritiriamo o combattiamo? Io dico di combattere. E intendo combattere!». Quella notte rincasai con l’ampia cerchia dei miei familiari, molti dei quali alloggiavano da noi. Dopo aver raggiunto le nostre stanze per indossare degli abiti più comodi, ci riunimmo in salotto, alcuni seduti sui divani, altri sul pavimento, e ci piazzammo davanti al televisore.

Nessuno sapeva che cosa dire o fare. Ognuno cercava di reagire a modo suo. Mi sedetti sul divano con Doug e mangiai un’intera confezione maxi di Doritos. Non ne lasciai nemmeno uno. Tuttavia, una cosa la sapevo: una campagna era finita, ma un’altra stava per cominciare. Una campagna a cui noi tutti eravamo chiamati a partecipare. Stavolta sarebbe stata una battaglia per l’anima della nostra nazione.

Negli anni trascorsi da allora, abbiamo visto un’amministrazione schierarsi con i suprematisti bianchi in patria e farsi amici i dittatori all’estero; strappare dei bambini alle braccia delle loro madri in una mostruosa violazione dei loro diritti umani; concedere enormi tagli fiscali alle grandi società e ai ricchi e, al contempo, ignorare il ceto medio; far deragliare la nostra battaglia contro il cambiamento climatico; sabotare l’assistenza sanitaria e mettere a repentaglio il diritto di una donna a controllare il proprio corpo; tutto questo, senza mai smettere di attaccare praticamente tutto e tutti, compresa l’idea stessa di una stampa libera e indipendente.

Noi siamo migliori di così. Gli americani sanno che lo siamo. Ma dovremo dimostrarlo. Dovremo combattere per questo. Il 4 luglio 1992, uno dei miei eroi e ispiratori, Thurgood Marshall, celebre avvocato generale degli Stati Uniti e giudice della Corte Suprema, fece un discorso che ancora oggi risuona con forza. «Non possiamo fare gli struzzi», dichiarò. «La democrazia non può fiorire in mezzo alla paura. La libertà non può sbocciare in mezzo all’odio. La giustizia non può mettere radici in mezzo alla rabbia. L’America deve mettersi al lavoro… Dobbiamo dissociarci dall’indifferenza. Dobbiamo dissociarci dall’apatia. Dobbiamo dissociarci dalla paura, dall’odio e dalla sfiducia».

Credo che non esista un antidoto più importante e significativo, per questi tempi, di un rapporto di fiducia reciproca. La fiducia si dà e si riceve. E uno degli ingredienti più determinanti, in un rapporto di fiducia, consiste nel dire la verità. È importante, quello che diciamo. Quello che intendiamo dire. Il valore che attribuiamo alle nostre parole, e quello che gli altri riconoscono loro. Non possiamo risolvere i nostri problemi più complessi se non siamo onesti su chi siamo e se non siamo disposti a sostenere conversazioni difficili e ad accettare quello che i fatti rendono evidente.

È necessario che diciamo la verità: che il razzismo, il sessismo, l’omofobia, la transfobia e l’antisemitismo sono qualcosa di reale in questo Paese, e dobbiamo affrontare queste minacce. Dobbiamo dire la verità: che, con l’eccezione dei nativi americani, discendiamo tutti da persone che non nacquero nella nostra terra – sia che i nostri antenati siano venuti in America volontariamente, con la speranza di una maggior prosperità futura, o costretti su una nave di schiavi, o ancora mossi dalla disperazione per sfuggire a un passato straziante.

Non possiamo costruire un’economia che dia dignità e decoro ai lavoratori americani se prima non diciamo la verità: che stiamo chiedendo alle persone di fare di più con meno soldi, e di vivere più a lungo con minor sicurezza. I salari non aumentano da quarant’anni, nonostante i costi dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione e delle case siano schizzati alle stelle. La classe media tira avanti stipendio dopo stipendio.

Dobbiamo dire la verità sul nostro problema delle incarcerazioni di massa, e cioè che mettiamo in prigione più persone di qualunque altro Paese al mondo, e senza un motivo ragionevole. Dobbiamo dire la verità sulla brutalità della polizia, sui pregiudizi razziali, sull’uccisione di uomini neri disarmati. Dobbiamo dire la verità sulle industrie farmaceutiche che hanno incoraggiato l’uso di oppioidi che danno assuefazione all’interno di comunità che non lo sospettano minimamente, su chi concede piccoli prestiti da ripagarsi non appena il beneficiario riceve la paga successiva e sulle università private che hanno succhiato grandi quantità di denaro agli americani vulnerabili, sovraccaricandoli di debiti. Dobbiamo dire la verità sulle società ingorde e predatorie, che hanno trasformato la deregolamentazione, la speculazione finanziaria e la negazione del cambiamento climatico in un vero e proprio credo. Io intendo denunciare queste verità.

Questo libro non vuole essere una piattaforma politica, e ancor meno una sorta di decalogo di cose da fare. È piuttosto una raccolta di idee, punti di vista e storie, attinti dalla mia vita e dalle vite di molte persone che ho incontrato lungo la mia strada.

Solo altre due cose da ricordare, prima di cominciare. Primo, il mio nome si pronuncia “comma-la”. Significa “fiore di loto”, che è un simbolo importante nella cultura indiana. Il loto cresce sott’acqua, e il suo fiore fuoriesce dalla superficie quando le radici sono ben piantate nel fondale del fiume.

Secondo: voglio che sappiate quanto tutto questo mi tocchi personalmente. Questa è la storia della mia famiglia. È la storia della mia infanzia. È la storia della vita che ho costruito a par- tire da allora. Conoscerete i miei parenti e i miei amici, i miei colleghi e la mia squadra. Spero che vorrete loro bene come gliene voglio io e, attraverso le mie parole, possiate rendervi conto che senza di loro non avrei potuto realizzare nulla di quello che ho fatto.

Per gentile concessione de La Nave di Teseo

Tratto da “Le nostre verità”, di Kamala Harris, La nave di Teseo, 384 pagine, 11 euro

 

X