Già Calvino, nel suo libro postumo, suggeriva come la leggerezza fosse una delle chiavi interpretative del nuovo millennio. E questa sembra essere la trama valoriale oggi. Guardando all’insieme degli aspetti considerati importanti nella vita degli italiani, al cui interno insiste il lavoro, otteniamo un primo scenario. La parte prevalente esprime un orientamento «relativista» (53,8 per cento), ovvero dispone sul medesimo piano l’importanza delle diverse dimensioni: dalla famiglia allo sport, dal tempo libero all’impegno sociale, passando per la cultura e il lavoro. In altri termini, tutti questi sono rilevanti quasi allo stesso modo. Di conseguenza, ciascuno lo è in misura relativa. Così facendo, non esiste una gerarchia vera e propria di spessore, ma di volta in volta si cercherà di adattare l’importanza sulla base delle situazioni o delle necessità. In un processo di continuo adattamento, può essere una risposta all’incertezza dominante.
È possibile individuare, però, due gruppi in grado di definire delle priorità nella propria vita: gli «eterogenei» (29,2 per cento) e gli «impegnati» (dicassette per cento). I primi mescolano aspetti di fondo della vita (famiglia, lavoro, salute e cultura) con altri legati al loisir (tempo libero e amici). I secondi individuano nella religione, nella politica e nell’impegno sociale gli elementi cardine di riferimento.
Sul piano simbolico, quindi, prevale – nel migliore dei casi – un orientamento adattivo, «relativista». Mentre, nel peggiore dei casi, l’incapacità di darsi una gerarchia di preminenze: tutto sta sul medesimo piano. La ricerca non consente di affermare, quale prevalga fra i due, poiché sarebbe servito un ulteriore approfondimento che l’economia del sondaggio non ha consentito di realizzare.
Tuttavia, quello che si può annotare è che il peso complessivo, il grado di importanza assegnato ai valori proposti diminuisce fra le diverse generazioni. Considerando le coorti estreme (i giovani, diciotto-trentaquattro anni; i senior, oltre sessantacinque anni), osserviamo come il peso medio assegnato dai secondi ammonti al sessantotto per cento, mentre fra i primi arrivi al 59,7 per cento. Per le giovani generazioni tutti gli aspetti suggeriti – tranne lo sport – hanno un grado di importanza inferiore rispetto a quanto dichiarato dai senior. Come se quelle dimensioni fossero diventate, appunto, più «leggere» nell’apprezzamento degli intervistati. Sostanzialmente non muta la gerarchia fra le generazioni, ma è il peso attribuito a essere inferiore per i più giovani.
È all’interno di questo quadro che si colloca il valore del lavoro. Rimane un elemento fondante di identificazione sociale per sé e per gli altri, anche per le giovani generazioni. Ha una sua centralità perché ha una valenza «espressiva» (40,2 per cento): dà significato alla propria vita, consente di avere soddisfazioni e raggiungere il successo. Ma non lo è solo per se stessi, perché è anche uno strumento per rendersi utili alla propria famiglia. Certo, c’è pure chi lo vive con una valenza «strumentale» (24,9per cento), come mero mezzo per guadagnarsi un salario e come sacrificio inevitabile. In ogni caso, la maggioranza trova in esso un punto di riferimento.
Nello stesso tempo, il lavoro è in «condominio» con altri aspetti della vita: è certamente rilevante, ma ne condivide il livello con altre dimensioni (40,3 per cento 18-34 anni; 60,7 per cento, oltre sessantacinque anni). Per una parte rilevante, infatti, il lavoro è importante, ma altri valori lo sopravanzano (32,2 per cento, 18-34 anni; 25,2 per cento, oltre sessntacinque anni). Si potrebbe sostenere che il lavoro ha una «centralità marginale» nell’orizzonte simbolico della gioventù odierna. In questo senso, diventa light, leggero nel suo peso specifico quale cardine di vita per le persone. È certamente importante, ma…
Non è poi così paradossale che, in un’epoca di elevata incertezza, l’impiego nel settore pubblico costituisca un approdo che offre le migliori garanzie in tema di mantenimento del lavoro e di tutele (56,5 per cento), per tutte le età. È la rappresentazione – diffusa nel nostro Paese non da oggi – del «posto fisso e garantito» che solo il settore pubblico oggi può (ancora) offrire. Tuttavia, i due terzi (66,9 per cento) ritengono che la ricerca di soddisfazioni sul lavoro sia più importante dell’avere un’occupazione stabile e ben retribuita. Ancora una volta, la dimensione light – come l’aspetto immateriale – del lavoro prevale.
Di più, sondando quale potesse essere il luogo fisico ideale dove lavorare, il posto che gli italiani avrebbero scelto, avendone la possibilità e coerentemente con l’orientamento precedente, è l’ufficio pubblico collocato in testa alla classifica (25,7 per cento). Desiderio, peraltro, fatto proprio dai senior (31,8 per cento, oltre 65 anni) ben più che dalle giovani generazioni (23,3 per cento). Al secondo posto della classifica è collocato il lavoro da casa, soprattutto da parte dei più giovani (17,5 per cento, 18-34 anni; 12,8 per cento, oltre sessantacinque anni) e della componente femminile (20,3 per cento; 13,4 per cento maschi). Un esito che sicuramente affonda le radici nell’esperienza della pandemia che ha dimostrato come sia possibile una diversa organizzazione del lavoro e che evidenzia una volta di più l’aspettativa di poter vivere il lavoro in modo light. Ciò non vuol dire che da casa sia meno faticoso o si lavori di meno, ma che consente di equilibrare e gestire meglio le altre dimensioni della vita.
Quest’ultimo aspetto si lega alla questione della cosiddetta Great Resignation, il fenomeno dell’abbandonare la propria occupazione, ancorché a tempo indeterminato, per un altro lavoro che abbia caratteristiche e qualità che rispondano meglio alle proprie attese, fenomeno che peraltro continua a interessare maggiormente le generazioni più giovani (46,5 per cento, 18-34 anni). È interessante osservare le motivazioni di una simile propensione a mobilitarsi sul mercato e che afferiscono – una volta di più – a criteri light, «espressivi» (60,6 per cento): bilanciamento del lavoro con gli spazi personali, l’avere maggiori possibilità di progredire nella crescita professionale assieme all’opportunità di mettere a frutto le passioni personali piuttosto che la flessibilità nell’organizzare gli orari di lavoro. Pesano decisamente di meno quelli più spiccatamente «strumentali» (39,4 per cento), come la ricerca di una migliore retribuzione e la vicinanza del luogo di lavoro rispetto alla propria abitazione.
Sono presenti però anche alcune dissonanze che caratterizzano le visioni degli italiani sui temi del lavoro. In questa sede ne prendiamo in considerazione alcune fra quelle emerse.
La prima riguarda il luogo del lavoro. Da un lato, fra gli ambienti in cui gli italiani aspirerebbero poter lavorare, dopo l’ufficio pubblico e la casa, vengo appaiate la piccola impresa artigiana (10,5 per cento) e la grande industria (10,4 per cento), con una leggera prevalenza tra i giovani di quest’ultima (11,8 per cento) rispetto alla prima (8,1 per cento).
Dunque, l’occupazione in una grande industria rinvia all’idea di un’organizzazione strutturata, tecnologicamente avanzata, dove si possono prefigurare percorsi di carriera e così via. La fabbrica, invece, viene collocata in fondo alla classifica (1,8 per cento), assieme alla cooperativa (1,5 per cento). Perciò, nell’immaginario collettivo esiste una dissociazione fra i termini industria e fabbrica, la prima connotata in senso positivo, la seconda decisamente meno, come un posto dove praticamente nessuno vorrebbe andare a lavorare. Tuttavia, lasciando liberi gli intervistati di associare un aggettivo alle parole operaio e fabbrica, nel primo caso solo il 30,4 per cento scrive un attributo positivo (negativo per il 60,3 per cento), nel secondo il 44,2 per cento (negativo per il 39,9 per cento). Esiste una «dissonanza percettiva» fra industria (positiva), fabbrica come posto in cui andare a lavorare (negativa) e fabbrica come ruolo/funzione (positiva).
La seconda dissonanza è di carattere «cognitiva». Per un verso, abbiamo potuto osservare come tendano a prevalere nell’immaginario collettivo del lavoro gli aspetti light, immateriali, come la ricerca di soddisfazioni personali, più della stabilità e della remunerazione, comunque importanti. Tale aspettativa, però, si scontra con un’ombra oscura che aleggia sul lavoro in Italia, percepito in larga prevalenza come precario, sfruttato, irregolare. Il 59,2 per cento degli interpellati rilancia un’immagine totalmente negativa degli aspetti che lo tratteggiano. La sfiducia è il sentimento che pervade la visione del lavoro nel nostro Paese, al punto che per il 54,4 per cento è giusto andare lontano da casa se si vuole fare il lavoro desiderato. Un lavoro vessato dall’imposizione fiscale: oltre quattro quinti (84,4 per cento) lo ritiene troppo tassato, mentre per il 70,9 per cento ha un costo troppo elevato per le imprese.
Una sfiducia che si riverbera anche nei confronti di chi, come le organizzazioni sindacali, cerca di tutelare e promuovere il lavoro. Solo un quinto degli italiani (20,8 per cento) intravede in esse la capacità di promuovere gli interessi dei lavoratori, quota che si eleva al 50 per cento fra gli iscritti. Ma per l’altra metà – nonostante vi aderiscano – nessuna fra le associazioni di rappresentanza svolge un simile ruolo. Scetticismo che pervade anche la capacità del sindacato di essere un soggetto centrale per lo sviluppo del Paese. La metà degli italiani (50,6 per cento) ritiene indifferente la sua presenza e un quinto (20,8 per cento) manifesta la sua contrarietà sostenendo che le vicende andrebbero meglio senza. Di più, tale indifferenza colpisce anche gli iscritti. Ben il 43,2 per cento valuta che le cose in Italia andrebbero nello stesso modo anche se non ci fosse. Si potrebbe affermare, quindi, che la sindrome del sindacato più che la contrarietà sia data dalla indifferenza: il non essere cioè considerato un soggetto che può giocare un ruolo nello sviluppo del Paese, così come, invece, poteva vantare pochi decenni fa.
Da ultimo, ma non per importanza, collegato al tema del lavoro abbiamo proposto agli interpellati anche di raccontare qual fosse stato il ruolo della famiglia nell’affrontare due bivi importanti della propria vita come la scelta scolastica e quella lavorativa. Anche in questo caso, sono emersi alcuni spunti di interesse per le azioni di orientamento su questi versanti. Il primo aspetto è legato al ruolo centrale della famiglia nell’indirizzare le scelte delle giovani generazioni (di oggi e di un tempo). Con una particolarità. Il ruolo preponderante è (stato) svolto per le generazioni più giovani (18-34 anni) dalla madre, sia sul versante scolastico (31,9 per cento) che lavorativo (25,4 per cento). I padri vengono sempre in secondo piano (rispettivamente l’11,4 per cento e il 13,4 per cento). Quindi, la figura genitoriale maschile risulta in ombra, se non assente. Ma non è sempre stato così. Infatti, all’aumentare delle coorti di età, i ruoli si invertono. Così, per i senior (oltre sessantacinque anni) erano i padri il riferimento sia per le scelte scolastiche (23 per cento, 17,9 per cento le madri), che per quelle lavorative (23,7 per cento, 16,5 per cento le madri). Nei decenni, quindi, si è avuta un’inversione nei ruoli familiari a favore della componente femminile, e un deciso appannamento di quella maschile.
Nello stesso tempo, non possiamo non rilevare come circa il venti per cento nel caso delle scelte scolastiche e il trenta per cento di quelle lavorative abbia visto le generazioni scegliere senza disporre di alcun riferimento cui affidarsi, confrontarsi o consigliarsi. Considerata l’età in cui quelle scelte vengono prese, non può non far riflettere come una parte non marginale della popolazione compia scelte importanti (benché non definitive) probabilmente con cognizioni di causa limitate.
Inoltre, chiedendo quale ruolo abbia esercitato la famiglia nelle scelte, sia sul versante scolastico che lavorativo, registriamo come una quota oscillante fra il quaranta e quarantadue per cento dichiari di aver ricevuto consigli, ma sia stato lasciato libero di scegliere secondo le proprie aspirazioni e inclinazioni. Il ventiquattro-trenta per cento, invece, ha avvertito un condizionamento dalla famiglia, almeno nella percezione, a seguire un indirizzo piuttosto che un altro. E il ventinove-trentaquattro per cento circa ha avuto sentore che tali questioni lasciassero indifferenti i propri genitori.
Valgono qui le medesime considerazioni fatte in precedenza. Ciò richiama la necessità di realizzare un effettivo sistema di orientamento scolastico e professionale a livello nazionale, per non lascia- re in balìa delle rappresentazioni sociali e delle aspirazioni verso i figli dei genitori (e segnatamente delle madri) o della scarsa/errata informazione sulle professioni delle future leve degli occupati, per evitare il «disorientamento» su un mercato del lavoro in progres- siva modificazione.
Come già detto, la pandemia ha rappresentato una discontinuità nella vita delle persone e delle imprese non solo pratica, ma anche simbolica. Sicuramente, ha costituito un evento che ha accelerato lo sviluppo di alcune tendenze, in buona misura già in atto, mentre altre le ha fatte sorgere: l’importanza delle dimensioni immateriali, di come i lavoratori guardino ai temi della qualità, delle relazioni sociali e partecipative, delle prospettive di carriera così come del welfare con un’attenzione crescente, e di come gli aspetti associati al lavoro, a parità di condizioni, spostino il baricentro sui caratteri soft (immateriali), più che su quelli hard (salario, posto di lavoro).
L’orizzonte del lavoro è collocato non più al vertice assoluto dei riferimenti, ma assieme ad altri aspetti considerati altrettanto importanti, se non, addirittura, più importanti del lavoro medesimo, in particolare, per le giovani generazioni.
Bisognerà tenerne conto soprattutto per il futuro (che è già oggi), se le imprese vorranno ingaggiarli adeguatamente ed essere attraenti e attrattive. Solo successive rilevazioni potranno confermare se tale tendenza si affermerà in modo ancora più esteso. Ma in questa fase storica le aziende stanno già sperimentando le difficoltà di sedurre e trattenere i/le giovani. Siamo forse all’inizio di una nuova discontinuità che richiede non solo singole iniziative o di saper rispondere alle attese di candidati che rispondo alle selezioni «le farò sapere se la sua offerta mi interessa», in un rovesciamento di ruoli fra domanda e offerta. È necessario un ripensamento complessivo dell’organizzazione lavorativa delle imprese e delle sue politiche per il capitale umano. All’insegna più che dello smart working, del light working.