L’altro fronteLa resistenza morale delle vedove e degli orfani ucraini

A Cieszanów, un piccolo paesino nella Galizia polacca vicino al confine ucraino, la Folkowisko Fundation organizza un campo estivo di sostegno psicologico dove vengono ospitate madri ucraine e i loro figli che hanno perso i cari al fronte

Giulio Albano

«Pensavo che anche qui sarei rimasta tutto il giorno da sola sul letto a piangere, come a casa. Ora non vorrei più andare via». A parlare è Dana, vedova di ventotto anni, madre di Polina, orfana di sette anni. Sono di Leopoli e sono qui in Polonia dove d’estate ogni settimana vengono organizzati campi di supporto psicologico per madri e bambini ucraini che hanno perso i loro cari al fronte. Vedove di guerra rimaste sole a crescere orfani di guerra. Ci troviamo a Cieszanów, un piccolo paesino nella Galizia Polacca, vicino al confine ucraino. Il confine è cambiato più volte, travolto dai conflitti. Ne è testimone la Chiesa della Santissima Vergine Maria a Gorajec, nata ucraina e ortodossa nel 1586, è oggi una delle più antiche chiese in legno della Polonia di rito cattolico con un cimitero ebraico di fronte il nostro campo.

Giulio Albano

A gestire il campo estivo è la Folkowisko Fundation, nata da Marcin Piotrowski, l’organizzatore del festival musicale locale. Le attività sono coordinate da “Vova”, Volodymir, un ucraino dallo sguardo vispo, il sorriso instancabile, una barba folta e le spalle larghe che reggono una testa lucida. Al nostro arrivo non ci sentiamo particolarmente accolti: le decine di teste bionde restano girate dall’altra parte. Ai loro occhi saremo sembrati due alieni, più gracili e scuretti di quanto già non fossimo. Marcin ci chiede di seguire un corso delle Nazioni Unite per volontari, sottolineando l’importanza di mantenere una condotta appropriata con le famiglie. Non si resta soli con i bambini e si evitano comportamenti inappropriati con le madri. La raccomandazione che più ci colpisce è che i minori, senza figure paterne, cercheranno contatto e affetto, ma non è il nostro ruolo. Non siamo i loro padri e dobbiamo mantenere una certa distanza.

Il campo è così organizzato: lunedì noi volontari ripuliamo la struttura, verso sera arrivano madri e bambini. Si fa un momento di accoglienza con una bella cena tutti insieme. C’è ancora un po’ di diffidenza, si scioglierà a breve.cDa martedì a giovedì: le madri sono seguite in un percorso di psicoterapia e arte terapia. Fanno anche yoga, un piccolo corso di difesa personale e passeggiate nella natura. Si fanno anche qualche bicchiere tutte insieme a sera, si prendono un po’ di tempo per loro stesse. Nel frattempo, i minori vengono impegnati in ogni tipo di attività sportiva, ludica e istruttiva. Il mercoledì sera c’è una grande festa in vishivanka, la camicia della tradizione popolare ucraina, dove si canta e si cena intorno al fuoco.

Giulio Albano

Il venerdì si va tutti a Rzeszòw, città di riferimento per gli ucraini in Polonia, al Tutu Center dove le madri svolgono dei colloqui individuali e i bimbi dei workshop molto leggeri, sempre a tema salute mentale. È l’ultima vera attività. Poi sono liberi di scorrazzare per la città: i bambini corrono al McDonald’s, le madri vanno a fare shopping. Una serenità che è a lungo è stata negata.

Il sabato è una vera e propria gita. Tutti sul bus e si va prima allo Zoo di Zamòsc, una struttura sovietica con gabbie decisamente inappropriate alle dimensioni degli animali. A pranzo si visita il centro di Zamòsć , che si rivela essere un’altra gemma del patrimonio polacco tra palazzine pastello e mura geometricamente perfette. Il pomeriggio si fa addirittura il bagno in piscina! Ormai si respira un’aria spensierata e tutti sono felici. Domenica: valige, pianti, abbracci, saluti. Poi i volontari e lo staff si riposano: c’è chi va in sauna, chi va al lago, chi chiama a casa in Ucraina. Lunedì si ricomincia.

Giulio Albano

Dal lunedì al giovedì sera si crea un gruppo con quelle dinamiche che solo i campi estivi sanno dare. Le madri trovano confidenti di un dolore prima esclusivo, i bimbi sconosciuti diventano compagni di giochi, i figli degli altri diventano anche un po’ figli propri. In questo contesto di famiglie straziate dalla guerra cercano di ritrovare serenità, giovedì sera arriviamo noi. Avvicinarsi alle madri non è stato facile, e intervistarle ancora meno. Ci avevano avvertito: non riportate alla luce brutti ricordi, non fatele piangere. Finalmente sabato sera Dana, giovane ed entusiasta, decide di farsi intervistare. Si sente a suo agio con me e Andrea, quasi suoi coetanei e si apre nel suo racconto, senza mai però parlare del suo trauma. L’unico accenno è una frase che già dice tutto «pensavo che anche qui sarei rimasta a casa tutto il giorno da sola a piangere. Ora non voglio più andare via, anche Polina è felicissima. Ci sono tante altre donne che avrebbero bisogno di settimane come questa e penso che tornata a Lviv proseguirò con gli psicologi, mi hanno fatto bene».

L’intervista dopo, con Oksana, non è andata così bene. Arriva con la maglietta “Ukraine is my home”, sorridente e carica. La sua storia è più complessa: i suoi figli sarebbero dovuti venire al campo con la compagna dell’ex marito ormai scomparso. Lei qui non ci voleva essere ma «se i miei figli vanno all’estero lo fanno con la loro vera madre». Vedo che si sta già commuovendo. Le chiedo cosa significhi per lei quella maglietta. «Quando tutto sarà finito voglio solo viaggiare, ma portare l’Ucraina sempre con me. Non voglio più pensare a quello che è successo, alle esplosioni, agli attacchi…». Nel tempo in cui Ania traduce la risposta inizia a piangere. Attorno a noi sguardi di rimprovero. Sarà dura creare nuovi contatti per altre interviste.

Giulio Albano

Lunedì inizia il nuovo campo: noi ormai non siamo più corpi estranei, siamo già lì quando arrivano le madri con i bambini e la nostra presenza, con tanto di videocamera, viene subito introdotta. Con questi bimbi ci è anche più facile interagire: hanno un’età media leggermente più alta (intorno ai quindici anni) e parlano qualche parola di inglese. Le nostre giornate diventano più intense: guidiamo le attività con i minori per tenerli occupati mentre le madri sono con le psicologhe: Olena e Julia.

«Perdere il marito in guerra significa non vedere più un futuro» ci spiegano. «Il primo passo è aiutarle a parlare del trauma e per questo usiamo l’arteterapia: è più facile con un disegno che con le parole. È importante connettere queste madri tra loro per fargli capire che non sono sole, che ci sono altre persone che possono capire il loro dolore». Ci spiegano come ignorare le istanze psicologiche porti anche danni psicosomatici, ricadute dirette sulla salute. «I bambini possono avere difficoltà nella crescita, restando con comportamenti infantili per sempre, oltre a presentare dei crolli nei rendimenti scolastici e difficoltà nelle relazioni. I due opposti sono o l’eccessiva espansività, che diventa aggressività, o al contrario il silenzio e l’apatia. Il trauma peggiore è per le famiglie dei dispersi: un trauma che rischia di non chiudersi, con famiglie che passano una vita ad aspettare un qualcuno che non tornerà mai». Molti non riceveranno mai assistenza psicologica, le famiglie spesso non sono sensibili alla salute mentale. Durante l’Urss si rinchiudevano nei manicomi gli oppositori politici, non c’è molta fiducia verso gli psicologi. Convincere le persone a venire qui non è stato facile anche per questo».

Giulio Albano

Un altro giovedì arriva in fretta. Occupandoci dei bambini abbiamo guadagnato la fiducia delle madri. Tra loro c’è Sofia, che accetta di farsi intervistare indossando la sua Vyšyvanka rossa e nera, in segno di lutto. «Il rosso rappresenta amore e tristezza, ciò che provo per mio marito». Sofia è qui per i suoi tre figli: «Devono distrarsi dalla guerra, tornare a giocare serenamente. Mila, mia figlia, è tornata a parlare».

L’arteterapia e lo yoga l’hanno aiutata, ma deve continuare a occuparsi di sé: «Lavoro dieci ore al giorno, e quando torno a casa devo sistemare tutto. Non mi resta più tempo né energie per i miei figli. Al ritorno, voglio trovare il tempo di andare dallo psicologo, mi fa bene». Racconta anche di suo marito del Donbas, arruolato dal 2014, si è sempre sentito al cento per cento ucraino. Ricorda lo shock dell’invasione del 2014 e «ora capisco che i ragazzi di Euromaidan avevano ragione». Stiamo finendo l’intervista e arriva proprio Mila, vuole stare anche lei davanti alla camera. E proprio Mila ci ha fatto venire un’idea. Ne parlo con le psicologhe, vogliono farlo assolutamente. Essere fotografate significa sentirsi al centro dell’attenzione, sentirsi belle, di nuovo donne oltre che madri. E così, con le Vyšyvanka, organizziamo un piccolo set fotografico. I sorrisi di Sofia, Dana, Oksana, Natalya, Olena e di tutte le altre tornano a risplendere. Non come vedove, non come madri, ma come donne in tutta la loro bellezza e libertà.

Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Andrea Zazzera

 

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