Lo evochiamo ogni giorno, magari più volte e inconsapevolmente, quando nei nostri whatsapp infiliamo l’emoji della faccina disperata, quella con gli occhi e la bocca spalancati e le mani a stringere la testa: è la stilizzazione grafica di un’altra immagine stilizzata, un capolavoro dell’arte. Riprodotto su copertine di libri, magneti, statuine, divenuto anche un pupazzo gonfiabile di svariate dimensioni e rielaborato pure nella maschera dell’assassino psicopatico del film Scream (1996), l’Urlo di Munch, realizzato nelle sue plurime versioni alla fine dell’Ottocento, è una delle immagini più citate, più presenti, più iconiche della contemporaneità e più rappresentative dei nostri umori.
Fino a qualche decina di anni fa non era così, e forse vuol dire qualcosa. Non lo era nel 1986, quando il catalogo dell’ultima grande antologica milanese, che pure eccezionalmente lo esponeva, aveva in copertina Le ragazze sul ponte. Probabilmente per sfuggire all’effetto inflazione, anche il catalogo della nuova mostra sul più celebre artista norvegese, di nuovo a Palazzo Reale di Milano (“Edvard Munch. Il grido interiore”, un centinaio di opere dal Munchmuseet di Oslo, a cura di Patricia G. Berman e Costantino D’Orazio, fino al 26 gennaio), ha in copertina una tela meno famosa, Disperazione, dipinta nel 1894, un anno dopo la prima versione dell’Urlo (di cui è presente una trasposizione litografica). E tuttavia il paesaggio è lo stesso, identici il cielo solcato dalle sanguinose lingue di fuoco del tramonto e il fiordo dipinto a spesse pennellate ondulanti, identici il viottolo e i due passanti di spalle in lontananza, identica la ringhiera accanto alla quale, in primo piano, sta invece un personaggio dalla testa china e gli occhi profondamente cerchiati, chiuso in sé stesso e in un cupo silenzio. Tutto intorno, però, l’atmosfera è ancora pregna di echi rimbombanti, di quel grido capace di modificare il paesaggio e di plasmarlo in cromatiche onde sonore: una esasperata operazione sinestetica che supera i limiti ravvisati da Schopenhauer nel potere espressivo dell’arte.
Munch si giova dei più avanzati studi di ottica sperimentale e di filosofia della percezione, ma quello che trasferisce sulla tela non è il prodotto della vista esteriore, bensì la sua ri-produzione filtrata dalla memoria: una “visione interiore”. «Non dipingo dalla natura – prendo da essa – o mi servo alla sua ricca tavola. Non dipingo ciò che vedo – ma ciò che ho visto», scrive in uno dei suoi innumerevoli appunti teorico-biografici. È l’esplicita dichiarazione di un’estetica che prende congedo dall’iniziale naturalismo impressionista e con ampio ricorso alle suggestioni simboliste apre la strada all’espressionismo. «La Natura è il mezzo non il fine», si legge in un altro appunto. «Se si può ottenere qualcosa modificando la natura – allora bisogna farlo. […] Rappresentando questo paesaggio si arriverà a un’immagine del proprio umore – È questo umore la cosa principale – La Natura è soltanto il mezzo».
La memoria seleziona gli elementi della visione originaria, elimina il superfluo e mantiene ciò che è essenziale per il soggetto senziente; semplifica e altera la realtà oggettiva perché guarda a ciò che ne riverbera nella realtà soggettiva, che si è depositato nell’anima dove incessantemente va incontro a modifiche. È significativo al riguardo l’incidente con il ritrattista Léon Bonnat, nel cui atelier parigino Munch era approdato venticinquenne nel 1889, grazie a una borsa di studio: il giovane artista aveva dipinto un nudo su sfondo blu, come appariva a lui, ma lo sfondo era rosso. Ne nacque una lite e Munch abbandonò lo studio.
Sull’anima dell’artista norvegese gravavano le tracce di un tragico vissuto personale – la fine prematura della madre e di una sorella, uccise dalla tisi, un fratello morto di polmonite, la perdita del padre, un’altra sorella ricoverata in una clinica psichiatrica – che ne alimenta i fantasmi interiori e inevitabilmente si traduce nella produzione artistica. Ma sarebbe riduttivo ricondurre deterministicamente la sua opera agli accidenti biografici, come avverte il direttore di Palazzo Reale, Domenico Piraina, nella prefazione al catalogo Arthemisia; l’intento della rassegna milanese è piuttosto quello di mostrare come Munch si inserisca pienamente nei processi evolutivi dell’arte a cavallo tra Otto e Novecento e nel coevo dibattito filosofico-letterario, in un incrocio di tematiche in cui si ritrovano Ibsen e Strindberg, Kierkegaard e Nietzsche, Freud e la nascente psicoanalisi.
Le stesse vicissitudini familiari, in questa cornice, assumono un significato più universale. «Nella mia arte ho cercato di spiegare a me stesso la vita e il suo senso – Ho anche avuto l’intenzione di aiutare gli altri a comprendere la loro stessa vita», annota infatti l’artista. La madre morta (morta quando Munch aveva cinque anni) è un olio dipinto nel 1893 (ventiquattro anni dopo) che con glaciale sgradevole cromatismo comunica il senso di gelo di fronte alla perdita di una persona amata. La morte al timone, ancora del ’93, raffigura un vecchio con le fattezze di Munch padre (morto quattro anni prima) su una barca governata da uno scheletro, allusivo alla sorte ultima di ogni avventura umana.
«Vivo la mia vita in compagnia dei morti», scrive Munch. E della morte ovunque vede i segni, le tracce, i presentimenti. Nella tela Angoscia (un titolo squisitamente kierkegaardiano, del 1894; in mostra due xilografie di poco successive), sul medesimo sfondo dell’Urlo, avanza una processione di volti spettrali: «Vidi tutte le persone dietro le loro maschere», è la spiegazione dell’autore, «visi sorridenti, flemmatici, calmi. Attraverso essi vidi sofferenza, in tutti – corpi pallidi che si affrettano inesorabilmente, correndo, lungo una via tortuosa, alla fine della quale si trova la tomba». Sembra di sentire Leopardi, i versi finali della poesia A Silvia: “All’apparir del vero / Tu, misera, cadesti: e con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda / Mostravi di lontano”.
Ma è in particolare il ricordo della amata sorella Sophie a tormentare Munch. Morta a quindici anni nel 1877, quando lui ne aveva tredici, a partire dalla metà del decennio successivo diventa un tema di ripetuto e dolente approfondimento. È del 1886 La bambina malata (in mostra due versioni litografiche seriori), ispirata all’omonimo quadro del suo mentore Christian Krohg, da cui però si distacca radicalmente sostituendo alla raffigurazione naturalistica del soggetto la materializzazione della sofferenza: una tela cruda, nervosa, solcata da rabbiosi graffi a coltello, che alla Mostra d’autunno di Kristiania (oggi Oslo) scatenò un’ondata di indignazione e derisioni. Ma il flusso artistico non si poteva arrestare: ed ecco nel ’93 il pastello Sul letto di morte e l’olio Morte nella stanza della malata (dove i familiari sono rappresentati nell’età che avevano all’epoca del dipinto, a suggerire l’intatta permanenza del lutto sedici anni dopo), e ancora nel 1915 Lotta contro la morte, una tela abitata di attoniti volti che richiamano il movimento tedesco Die Brücke.
Le opere di Munch sono una ossessiva autoconfessione affollata di ombre incongrue, presenze inquietanti, figure in dissoluzione, allucinazioni partorite da una mente visionaria. Non solo la morte: l’angoscia (tema squisitamente kierkegaardiano), la disperazione, la malinconia, l’amore, la gelosia sono i motivi (non di rado i titoli) dei suoi lavori, che entrano a comporre il vasto progetto del Fregio della vita inaugurato con la mostra berlinese del 1893 e via via arricchito di nuove prove. L’artista è inseguito dai fantasmi di una duplice tara ereditaria da cui è convinto di non avere scampo, quella fisica della tubercolosi che si è portata via la madre e la sorella Sophie e quella morale della depressione che ha consumato il padre e sta consumando l’altra sorella Laura.
È questa l’ossessione che per quattro anni mina il rapporto con la pittrice Tulla Larsen e gli vieta di convolare a nozze, fino al burrascoso atto conclusivo, nel 1902, quando dal revolver con cui l’artista giocherella parte un colpo che lo ferisce al dito medio della mano sinistra. Come si fosse determinato l’incidente non è mai stato chiarito, ma Munch ne accusa Tulla, la chiama castratrice e sanguisuga, come la Vampira dalla lunga chioma avvolgente che aveva dipinto nel 1894, come l’Arpia di due litografie del 1899. Alla fine l’artista traduce il suo rancore in un quadro intitolato L’assassina (1906), dove la donna è nuda in primo piano davanti a un letto su cui giace l’uomo con la mano sanguinante, e in una serie di variazioni su La morte di Marat (in mostra la tela del 1907) dove la medesima scena è ripresa da diverse angolazioni e la stessa Tulla prende il posto di Charlotte Corday. Ma già da prima l’immagine femminile era segnata agli occhi del pittore da una pericolosa ambiguità, che si manifesta in splendida evidenza in uno dei quadri più celebri del Fregio, la Madonna del 1894 (presenti a Palazzo Reale due versioni litografiche), sensualmente nuda, sospesa tra estasi erotica e oscuro dolore, circonfusa da un’aureola che ha il colore rosso dell’amore e del sangue.
Minato dalle fobie ipocondriache, dalla depressione, dall’alcolismo, Munch va incontro a un crollo nervoso che lo obbliga nel 1908 a un lungo periodo di cure in una clinica di Copenaghen. Ne esce l’anno dopo e ritrova nuovo vigore con una serie di opere monumentali destinate a decorare l’aula magna dell’università di Kristiania. La mostra milanese ne espone una selezione, oltre ad alcuni dei lavori nati dai ripetuti viaggi in Italia e a numerosi autoritratti che documentano la sua incessante autoanalisi pittorica.
Il percorso si chiude con un Autoritratto tra il letto e l’orologio realizzato tra il 1940 e il ’43: l’artista vi compare in piedi, rigido, con le braccia inerti penzolanti lungo i fianchi, al limitare tra una stanza illuminata dal sole e tappezzata di quadri alle sue spalle (la vita passata) e la camera da letto, con il riflesso di una finestra che disegna sul pavimento davanti a lui una croce. Munch morirà nel 1944, lasciando nelle sue tre dimore norvegesi, in aggiunta alle opere vendute nel corso di una febbrile attività, 1.106 dipinti, 15.391 incisioni, 4.443 tra disegni e acquerelli oltre a sei sculture. L’ultima scorata immagine che lo ritrae è silente, ma l’urlo che era esploso nella sua mente al tramonto di un lontano giorno su un sentiero collinare nei pressi di Oslo stava risuonando nel mondo più forte che mai, e ottant’anni dopo ha ripreso vigore.