La pressione fiscale nel 2022, quando Giorgia Meloni ereditò il governo da Mario Draghi, dopo esserne stata la sola oppositrice, era al 41,7 per cento del Prodotto interno lordo. Dopo le recenti revisioni dell’Istat, la pressione fiscale del 2023 è stata del 41,5 per cento. Nel 2024 è salita di quasi un punto, al 42,3 per cento. Nello scenario tendenziale (cioè a legislazione invariata) del Piano strutturale di bilancio di medio periodo, presentato da Giancarlo Giorgetti a fine settembre, la pressione fiscale sarebbe dovuta salire nel 2025 al 42,8 per cento e rimanere sostanzialmente stabile per un triennio (42,7 per cento nel 2026 e 42,8 per cento nel 2027).
Nello scenario programmatico, che incorpora le nuove manovre di finanza pubblica, contenuto nel Dpb (Documento programmatico di bilancio) il Governo ipotizza che nel 2025 sarà riconfermato il dato del 2024 (42,3 per cento), presumibilmente per il rinnovo dell’Irpef a tre aliquote e del taglio del cuneo contributivo, che diventano strutturali. Di fronte a questo scenario, la Giorgia Meloni di due anni fa griderebbe oggi che il suo governo, due anni dopo, ha aumentato le tasse. E si sbaglierebbe, ora come allora.
Non c’è dubbio che la pressione fiscale complessiva è un indicatore molto più serio sul peso delle tasse e dello Stato di quanto non lo sia questa o quell’altra aliquota, alzata o abbassata nei ricorrenti abracadabra tributari delle maggioranze di ogni colore. Ma l’aumento della pressione fiscale non dipende solo da scelte politiche o da provvedimenti legislativi. Se le entrate tributarie per il recupero dell’evasione aumentano più del Pil aumenta la pressione fiscale, anche se nessuno ha aumentato le tasse.
Se però aveva torto la Giorgia Meloni di lotta, questo non significa affatto che abbia ragione la Giorgia Meloni di governo, che rivendica una inversione di rotta in materia fiscale. Ovviamente c’è anche un aspetto qualitativo, e non solo quantitativo nei ragionamenti sul peso della tassazione nella vita economica e sociale. Lo stesso peso complessivo, ripartito diversamente tra i diversi soggetti e le diverse attività, ha effetti diversi.
Descrivere però il bipolarismo come lo scontro tra la sinistra delle tasse e la destra della liberazione fiscale è una palese impostura, perché se c’è un dato storicamente evidente è che l’andamento della pressione fiscale nell’ultimo decennio, con governi di ogni colore (di sinistra, populo-sovranisti, demo-populisti, di unità nazionale e infine di destra), è stato stabilmente attorno al quarantadue per cento, un po’ sotto e più spesso sopra.
A dimostrazione del fatto che con un bilancio come quello italiano, ingessato da due anomalie strutturali – la spesa previdenziale e il costo del debito pubblico – e non direttamente rimediabili esclusivamente con manovre di finanza pubblica, a fronte di una crescita asfittica, ridurre le tasse è difficile quanto e più che aumentare ulteriormente la spesa, sorvegliata dalla Commissione europea.
Quindi l’Italia è sempre rimasta in questi anni uno dei paesi con la più alta pressione fiscale nell’Ue, con davanti pochissimi stati con sistemi di welfare molto più evoluti e generosi di quello italiano. E va inoltre considerato che in termini reali, al netto dell’economia illegale computata nel Pil, la pressione fiscale su quanti pagano effettivamente le tasse sale, secondo le stime, a livelli record, diventando la più alta dell’Ue.
La cosa politicamente più interessante di questa battaglia delle tasse combattuta a parole, ma mai davvero sul terreno delle politiche di bilancio, è che rappresenta perfettamente un discorso pubblico e un dibattito politico patologicamente pervertito a teatro delle ombre e animato da un nichilistico desiderio di vendetta. Anche al tema fiscale si applica il paradigma colpevolistico-espiatorio generalmente utilizzato nello scontro politico – che si parli di sicurezza, immigrazione, demografia, federalismo… – nella perenne ricerca non di una soluzione, ma di una vittima da sacrificare all’ira della piazza e da consegnare alla gogna del popolo, sperando di propiziare il favore degli dei o del destino.
Nulla nella democrazia italiana sembra ormai muoversi in direzione diversa dalla ghigliottina o dall’esorcismo, in una messa in scena psicagogica e imbrogliona: che è esattamente quel che fa lo Zelig di Via Nazionale, Giorgetti quando promette e celebra il sacrificio dei banchieri, presentando come miliardario bottino per il popolo un gioco delle tre carte di crediti fiscali, di cui le imprese bancarie e assicurative rinviano semplicemente l’incasso a dopo il 2025. Insomma, anche sulle tasse una politica senza verità produce solo entropia democratica, presagio di ulteriori fallimenti e raggiri.