Iran a mani nudeLa coraggiosa lotta contro gli ayatollah di Mahsa e le sue sorelle

Mariano Giustino racconta la morte di Hadis Najafi, una giovane fashion blogger di Mehrshahr, uccisa a colpi di arma da fuoco durante le proteste contro l’apartheid di genere imposto dalla Repubblica islamica

AP/Lapresse

Amava la danza, amava la musica, amava indossare i tacchi a spillo, jeans attillati e maglietta corta che scopriva l’ombelico. Chiusa nella sua stanza, davanti alla telecamera del suo computer, intratteneva il suo folto pubblico di TikTok e Instagram danzando e cantando in videoclip con sincronizzazione labiale.

Hadis Najafi era una giovane ventiduenne laureata in “Design del cucito”, si guadagnava da vivere facendo la cassiera in un ristorante della Eram Valley di Mehrshahr. Condivideva i suoi pensieri in questo modo scherzoso, come fanno molti coetanei nel mondo. Nell’ultimo videomessaggio rivolto ai suoi settantaquattromiladuecento followers, Hadis parlava del suo sogno di un futuro migliore. Sognava di diventare popolare, di vivere e divertirsi come le ragazze di Los Angeles e di New York e la magia della Rete glielo consentiva. 

Alle donne è vietato cantare e ballare in pubblico, è vietato truccarsi, è vietato il rossetto sulle labbra, è vietato mostrare i capelli. E lei nel suo piccolo mondo digitale aveva infranto questa mortifera imposizione.

«Quando mi guarderò indietro tra qualche anno, sarò felice di aver partecipato a queste proteste contribuendo a cambiare in meglio la vita delle donne e il mio paese», aveva detto al suo affollato pubblico in Rete. 

È stata uccisa a colpi d’arma da fuoco circa un’ora dopo aver realizzato il suo videoclip. Verso le diciannove e trenta della sera del 21 settembre era uscita di casa per unirsi alle proteste, all’insaputa della madre. Sei proiettili di fucile da caccia l’hanno raggiunta sull’Eram Boulevard, nel centro ricco e lussuoso di Mehrshahr, un distretto a sudovest della città di Karaj, a quaranta chilometri dalla capitale.

Hadis era nota sui suoi account di social media, Instagram e TikTok, come fashion blogger, ma la sua morte l’ha resa un’icona della lotta contro l’obbligo dell’hijab. I suoi amici la descrivono come una ragazza energica, piena di passione per la vita. Indossava abiti luminosi e allegri con i quali amava mostrarsi sui social raccontando ogni momento delle sue giornate. Hadis era uno spirito libero e la morte della sua coetanea curda

Mahsa Amini l’aveva sconvolta. Era per questo piena di rabbia e assetata di giustizia, da allora aveva deciso di uscire la sera senza il suo foulard in testa mostrando la sua chioma bionda annodata in una fluente coda di cavallo. Sua sorella, Shiirin, ha raccontato ai giornalisti che Hadis aveva «il cuore spezzato per la fine atroce di Mahsa». Sono migliaia le donne scese in piazza nelle fervide notti delle città dell’Iran in un moto di ribellione contro un regime oscurantista e misogino che impone loro una vita da recluse.

La sera, giovani donne, per lo più universitarie e liceali, escono in strada, si tolgono il velo per sventolarlo come una bandiera, ad esso danno fuoco e si tagliano i capelli. Lo fanno anche con ironia prendendo in giro i lugubri teocrati dalla barba grigia. Vogliono liberarsi dall’oppressione, sfidano apertamente la regola dell’hijab e pubblicano in Rete le foto e i video delle loro performance per incoraggiare tutte le altre donne alla ribellione su Instagram, WhatsApp, Twitter e Facebook.

Tagliarsi i capelli è un atto di disperazione, esprime un rifiuto radicale. Durante il genocidio perpetrato dall’Isis a Şengal nel 2014, in nord Iraq, le donne ezide sono state viste tagliarsi i capelli in segno di lutto. Coloro che hanno perso i loro cari, le donne violentate, a cui sono state spezzate le ali, sono use tagliarsi i preziosi capelli per mostrare tutto il loro dolore, la loro rabbia e il loro orgoglio.

Quella sera del 21 settembre Hadis era finita all’ospedale di Ghaem: aveva nel volto, nel collo e nel petto, conficcati numerosi pallini di proiettili di fucile da caccia, sparati a distanza ravvicinata dalle forze basij, i volontari paramilitari dei Guardiani della rivoluzione islamica (Irgc, pasdaran). A sua sorella e ai suoi genitori non è stato permesso di visitarla perché Hadis era una manifestante. Hanno potuto vederla solo nell’obitorio, su richiesta del marito della sorella, membro basij.

Ben venti pallini di proiettili di fucile da caccia erano conficcati nelle sopracciglia, sulle labbra, sul collo e tutt’intorno al petto. Il suo naso era completamente spappolato. Quando la sua famiglia ha aperto la bara prima della sepoltura, solo in quel momento ha scoperto che la ragazza era piena di fori di proiettili.

Il corpo della giovane blogger è stato consegnato ai genitori due giorni dopo la morte. In queste terribili ore di profondo dolore la famiglia di Hadis è stata sottoposta a notevoli pressioni da parte delle forze di sicurezza che volevano costringerla a firmare una dichiarazione in cui si affermava che la morte della ragazza era avvenuta a causa di un ictus. 

I genitori si sono rifiutati di farlo e hanno invece rivelato tutta la verità ai media. Il corpo di Hadis Najafi è stato seppellito venerdì 23 settembre nel cimitero “Behesht-e-Sakineh” di Karaj, lotto ventinove, fila venticinque, una settimana dopo il funerale di Mahsa Amini. Erano presenti alla cerimonia funebre le forze di sicurezza che hanno proibito ai familiari di parlare a voce alta e hanno ingiunto di evitare rumorose lamentazioni di dolore.

 

 

 

 

 

 

 

 

Tratto da “Iran a mani nude. Storie di donne coraggiose contro ayatollah e pasdaran” (Rubbettino), di Mariano Giustino, pp 143, 12.35 €

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