Fino a quando non ho indossato la camicia nera sono state stagioni di pigrizia e letargo, in cui non facevo che sparpagliare il tempo e tormentare i colombi: mi accanivo nei giardini pubblici ad agitarli a testa in giù prima di troncargliela di netto. Sbattevano le ali per lunghi minuti e io restavo a guardare quei corpi come fossero anime estenuate. Invece i fascisti erano instancabili: addestravano ragazzini, stavano nello scantinato a discutere, sbevazzare, parlare di donne. Per loro fare gruppo era naturale e anch’io, da quando mi ero aggregato, non passavo più le giornate da solo. Uno mi ripeteva sempre che bisogna avere cura del corpo, esercitarlo, irrobustirlo e io mi mettevo al suo fianco a fare ginnastica e sollevare pesi per pomeriggi interi.
«Tra poco la camicia ti disegnerà il petto, il fascismo ti renderà un maschio forte», diceva. A casa, per tenere buono mio padre, raccontavo di aver passato la giornata a cercare un lavoro. Tutti quelli che mi trovava lui li scartavo senza neanche prenderli in considerazione. Vivevo alle sue spalle e contavo sul cameratismo dei miei nuovi fratelli, specie verso l’ora di pranzo.
– A Spalato hanno ucciso dei marinai italiani. Domani fatti trovare in via Carducci! – mi ha intimato un giorno di luglio Tonetti ansimante sulla porta di casa. – Sarai con me e mio padre. Il segretario del Fascio di Trieste, Francesco Giunta, urlava nel megafono che in città eravamo stufi, che quei poveri marinai gridavano vendetta e che il razzismo verso gli slavi rispondeva a un principio naturale.
– Chi è italiano è di necessità antislavo e chi non lo è collabora con quella razza! – sbraitava.
Gli squadristi applaudivano, piazza dell’Unità si affollava sempre di più. Eravamo centinaia di persone e io mi sentivo al sicuro in mezzo agli squadristi. Non aveva ancora finito di arringare che sono scoppiati i primi tafferugli: italiani e slavi si picchiavano a mani nude, con bastoni e manganelli. Alcuni tentavano spaventati di allontanarsi, i passanti s’infilavano nelle vie secondarie e nei portoni in cerca di rifugio.
Giunta, saputo che durante il comizio avevano ucciso un cuoco italiano, aizzava la folla a marciare sul Narodni dom. Appena si è sparsa la voce sono piovute a stormi da via Roma, da via Dante, da via San Spiridione altre camicie nere. Tonetti mi ha scaricato tra le braccia delle pietre: – Forza, tira!
Ho fatto sì con la testa ma non riuscivo a muovermi. Lo fissavo impalato. Lui allora, freddo e sicuro, ha estratto la pistola, me l’ha puntata sulla pancia e mi ha ordinato di tirare quei sassi. Allora ho iniziato.
Sloveni – un colpo – croati – un colpo – italiani – un altro colpo – austriaci – un altro ancora…ogni sassata scacciava la paura che mia madre potesse essere lì dentro. La polizia e i carabinieri sul perimetro della piazza non muovevano un dito: erano tutti con noi o intimoriti da noi.
D’improvviso da una finestra dell’Hotel Balkan qualcuno ha lanciato una bomba che è esplosa tra la folla. Allora abbiamo preso coraggio e in fretta sfondato le porte. Le latte di benzina hanno fatto il resto. Ne abbiamo versata in ogni angolo: sugli arredi, sui tappeti, lungo le scale. Le fiamme immediatamente hanno abbracciato la facciata principale. Tutto bruciava. Sentivo la fronte scottare, gli occhi iniettarsi di sangue, urlavo parole che non ricordo. Forte da graffiarmi la gola.
Non avevo mai fatto caso, nonostante fosse enorme, al Narodni dom. Mai mi ero davvero accorto della biblioteca, del ristorante, dell’hotel che c’erano dentro, di quanti sloveni ogni giorno entravano e uscivano. Ci sono cose e persone con cui trascorri la vita e che vedi davvero soltanto quando ormai stanno bruciando. Dalle retrovie si sono intensificati i colpi di fucile e dal palazzo una coppia si è lanciata tenendosi per mano: meglio sfracellarsi sul lastricato piuttosto che farsi ingoiare dalle fiamme. Ripenso spesso a quel volo a precipizio, piú volte ho sognato di morire così con la donna che amavo.
L’aria si faceva ogni secondo più acre. Mi sono coperto la bocca con un fazzoletto per continuare a colpire. Il braccio e le spalle mi facevano male per lo sforzo. Le lingue di fuoco continuavano ad allungarsi. In una ventina abbiamo bloccato i pompieri, gli abbiamo tagliato i manicotti degli idranti. Quell’eccitazione smisurata si smorzava soltanto all’idea che a bruciare fosse un pezzo di città.
Risentivo la voce di mio padre: «Trieste è di tutti». La sua mano che mi stringeva forte. Ancora a tarda sera si levavano colonne di fumo come da un accampamento. Il rogo della biblioteca aveva più nerbo di prima.
– Insieme a quei libri inceneriscono le speranze, – ha detto in dialetto un vecchio che attraversava la piazza. Il vento spargeva faville nell’aria e dopo il suo soffio più niente aveva forma. Ho assistito a quello spettacolo interminabile e quando le fiamme hanno iniziato ad assopirsi mi sono sentito pronto a qualsiasi cosa pur di non farmi scappare l’onnipotenza che mi era entrata nelle ossa.
Tratto da “Bambino” (Einaudi), di Marco Balzano, pp. 224, 9. 99 €