Steven Pinker è uno studioso di grande successo internazionale. Non uso la parola «influente», oltre che per motivi di buon gusto, perché la nostra epoca non mi sembra poi così ricettiva alla sua predicazione razionalista e fondamentalmente ottimista. D’altra parte, come ricorda il Foglio, che non per caso lo ha avuto come ospite d’onore al festival dell’ottimismo, i suoi libri hanno «aperto dibattiti e offerto innumerevoli spunti agli editorialisti del New York Times, dell’Atlantic o dell’Economist». Un biglietto da visita che per i suoi critici non farà che confermarne la caricatura di Pangloss dell’ordine neoliberale (qualunque cosa s’intenda con la definizione).
Proprio per questo, però, mi paiono tanto più significative alcune affermazioni della conversazione pubblicata oggi sul Foglio. La prima riguarda i social network, che hanno certamente un ruolo rilevante nella società di oggi, per spiegare cosa è successo almeno dal 2016 in avanti, con Brexit e Donald Trump, ma forse anche un filo sopravvalutato, perché «quando vengono a galla fenomeni come il populismo e la polarizzazione attuali, significa che sotto crescevano da tempo molte altre bolle che poi vengono a galla». La crisi economica è tra queste, certo, ma «negli Stati Uniti per esempio uno dei fattori di radicalizzazione è la carenza di abitazioni».
Il caro vecchio problema della casa, insomma, che «sembra una spiegazione un po’ noiosa», mette le mani avanti Pinker, ma in città dove costruire è sempre più difficile, gli spazi si restringono e i prezzi inevitabilmente salgono, è un fenomeno che ha un peso forse maggiore, sulla rabbia di tante persone, di quanto possa averne un post su Facebook (qui forse gli sto un po’ forzando la mano io, nel riassumere il concetto, d’altra parte cosa vi aspettavate, vi siete iscritti a una newsletter che si chiama «la linea», mica «rassegna stampa dal mondo»).
Un altro problema, collegato al primo, riguarda la cosiddetta segregazione da livello di istruzione. Negli Stati Uniti, ad esempio, le persone con laurea e master lasciano le zone rurali per le grandi città, e così si crea un divario che si traduce anche in diverse scelte politiche, creando pure le basi per quella che è stata chiamata «epidemia di solitudine». Definizione peraltro non amata da Pinker, secondo il quale il problema ha a che fare anzitutto con il semplice fatto che oggi ci sono molti più single che in passato, famiglie più piccole, per cui non abbiamo più intorno tanti figli e cugini come un tempo. E poi, oltre alla segregazione residenziale e alla segregazione virtuale dovuta alle famose bolle dei social network, tra le noiose spiegazioni dello studioso c’è un altro ordine di considerazioni. «Si vive in contesti dove ci sono sempre meno spazi di confronto, luoghi comunitari. C’erano istituzioni che un tempo facevano da ponte tra le classi sociali e tenevano uniti: l’esercito quando c’era la leva obbligatoria, le chiese, che oggi sono in crisi…». E qui Pinker, da buon americano, prosegue citando «i Lions, i Rotary, i circoli di volontariato», mentre io, come l’attento lettore avrà certamente già capito da un pezzo, aggiungerei le care vecchie sezioni di partito, e persino movimenti, associazioni e centri sociali. Dopo tanti elogi della disintermediazione, mi pare che queste osservazioni, apparentemente noiose e perfino banali, denotino una svolta significativa, o se volete un rinsavimento, almeno in certi ambienti. Ottimisticamente, voglio sperare che duri.
Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.