Il 30 settembre al Palais de Justice di Porte de Clichy a Parigi è iniziato il processo contro Marine Le Pen e altri ventisei membri di spicco del Rassemblement National (ex Front National), accusati di aver utilizzato in maniera impropria i fondi del Parlamento europeo tra il 2004 e il 2016. Si tratta di quasi sette milioni di euro con cui gli europarlamentari del partito di Le Pen avrebbero dovuto pagare i contratti degli assistenti parlamentari a Strasburgo e Bruxelles e che invece, secondo l’accusa, sono stati utilizzati per stipendiare i funzionari del partito impegnati in Francia. Alcune di queste figure non avrebbero nemmeno mai messo piede al Parlamento europeo, mentre altri avrebbero svolto funzioni completamente diverse.
Nel procedimento compaiono i nomi di molti degli esponenti dell’estrema destra francese e fedelissimi della leader. C’è Jean-Marie Le Pen, fondatore del Front National e padre di Marine. Ci sono il Sindaco di Perpignan ed ex compagno di Le Pen, Louis Aliot, l’ex capo dello staff di Le Pen Catherine Griset e l’ex tesoriere Wallerand de Saint-Just. Ci sono deputati più giovani come Julien Odoul e quelli che hanno lasciato il Rn come Nicolas Bay. In tutto sono ventisei i membri del partito indagati. La procura proverà a dimostrare che non si è trattato di singole anomalie ma di un «sistema» centralizzato di incarichi fittizi, finalizzato a sostenere con i fondi del Parlamento europeo le casse di un partito che da qualche anno economicamente non naviga in buone acque.
La leader del Rn ha respinto ogni accusa e sembra voler utilizzare il processo a proprio vantaggio provando a convincere l’opinione pubblica che sia lei la vera vittima (una strategia simile a quella di Trump). Le Pen è consapevole che il suo futuro politico dipende in larga misura dall’esito di questo processo. In caso di giudizio sfavorevole la pena massima potrebbe prevedere dieci anni di carcere, una multa fino a un milione di euro, ma soprattutto l’ineleggibilità a qualsiasi carica pubblica per cinque anni. L’impossibilità di essere eletta diventerebbe la sliding doors della sua carriera politica in un momento in cui il suo partito vola nei sondaggi a due anni e mezzo alle presidenziali del 2027.
Certo, si dovrebbero verificare diverse condizioni sfavorevoli non scontate, e anche in caso di condanna nel processo di primo grado – che dovrebbe durare un paio di mesi – gli eventuali ricorsi si concluderebbero quasi certamente dopo la scadenza elettorale. Ma sarebbe comunque un problema per il Rn presentare una candidata presidente su cui pende una simile spada di Damocle. Inoltre, anche in caso di una condanna «soft» che permettesse a Le Pen di candidarsi, il rischio è che questa vicenda la indebolisca politicamente. Il giovane presidente del partito Jordan Bardella – che nei piani della leader diventerebbe primo Ministro se lei dovesse approdare all’Eliseo – non compare tra gli indagati e potrebbe approfittare del processo in corso per rafforzare la sua leadership, anche se recentemente il quotidiano Libération lo ha accusato di aver presentato documenti falsi quando era assistente parlamentare. Accuse che Bardella ha respinto ma che rischiano di trasformarsi in una nuova grana per il partito.
Premesso che Le Pen è innocente fino al terzo grado di giudizio, questa storia potrebbe essere l’ennesimo ostacolo che la leader dell’estrema destra francese si trova a dover affrontare a pochi passi dal traguardo. Dopo un periodo particolarmente brillante per il Rn, che ha stravinto le elezioni europee, i sovranisti non sono riusciti a capitalizzare a pieno il consenso all’interno dei propri confini. La strategia di Macron che ha portato il Paese alle urne subito dopo le europee ha evidentemente spiazzato Le Pen, che a poche settimane dal risultato di giugno non è stata in grado di ripetere la performance alle elezioni nazionali. Anzi, l’esito ottenuto dall’estrema destra ha spinto gli altri partiti a compattarsi, e nonostante le numerose difficoltà, nelle ultime settimane hanno votato a favore del nuovo governo Barnier.
Un passaggio che la leader di Rn ha dovuto interpretare come una tappa intermedia in vista di quella che, stando ai sondaggi, potrebbe essere la sua consacrazione definitiva nel 2027 (guai giudiziari permettendo). La sensazione però è che nei momenti decisivi della carriera politica di Le Pen subentri sempre un fattore che le impedisca di fare lo scatto decisivo. Il riferimento non è ovviamente al processo e alle relative tempistiche che sono fuori dal controllo del Rn. Al contrario, invece, le ultime scelte del suo partito, anche a livello internazionale, sembrano ben ponderate, ma non azzeccatissime. La decisione di fondare ancora una volta un gruppo con Salvini, Orbán e gli altri partiti filorussi al Parlamento europeo potrebbe essere difficile da digerire per quell’elettorato francese più moderato, fondamentale per fare l’ultimo passo verso l’Eliseo (anche se il caso Vannacci dimostra che, forse, una linea rossa da non superare esiste anche per il Rn).
Volendo fare un paragone con un’altra figura di estrema destra come Giorgia Meloni, si nota una differenza abissale a livello di riconoscimento internazionale. Nonostante alcuni progressi e uno svecchiamento del partito, Le Pen fatica a scrollarsi di dosso l’etichetta della leader espressione di quella destra populista da cui non sai mai cosa aspettarti. Meloni una volta diventata premier ha fatto di tutto per dimostrarsi affidabile. Magari, se sarà eletta, lo farà anche Le Pen, ma per il momento la strada intrapresa è un’altra. Una strategia che potrebbe tenere lontano quell’elettorato repubblicano che fatica a votare Rn perché preoccupato dalle politiche economiche sovraniste, dalle relazioni difficili con i tradizionali partner della Francia, dalle posizioni sull’Ucraina e dai continui ammiccamenti con Putin e Orbán. Specialmente perché la Francia non è l’Ungheria e per guidare la seconda economia europea occorre una certa affidabilità, soprattutto in ambito economico e nella scelta degli alleati.