Rompere il ghiaccioDopo anni di euroscetticismo dominante, l’Islanda potrebbe riavvicinarsi all’Ue

Le elezioni anticipate hanno segnato una svolta significativa nella politica Reykjavík. La crescita dei partiti socialdemocratici e liberali apre nuove possibilità per la riapertura dei negoziati di adesione ai Ventisette

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Le elezioni anticipate in Islanda di sabato scorso hanno fornito indicazioni in controtendenza rispetto al momento storico in cui l’Europa e il mondo si trovano: i partiti euroscettici che hanno guidato il paese durante gli ultimi sette anni sono usciti a pezzi da questa tornata, fornendo un inaspettato assist per chi vorrebbe riaprire i negoziati per l’ingresso nell’UE, interrotti dieci anni fa. Kristrun Frostadottir, trentasei anni ed ex giornalista della tv di stato, è la leader dei socialdemocratici e ha già ottenuto il mandato per formare la maggioranza.

In un primo momento, i risultati sembravano fornire un rebus incerto, ma già all’indomani del voto la scena è stata presa da quelle che la stampa ha già ribattezzato “Le tre Valchirie”, suggestione proposta da Inga Sæland, una delle tre leader di partito che collaborano per trovare un accordo di governo in tempi rapidi.

Andando con ordine: dal 2017 a poche settimane fa l’Islanda è stata governata da una curiosa alleanza fra conservatori (Partito dell’Indipendenza), centristi (Partito del Progresso) e Sinistra Verde. I tre gruppi erano accomunati unicamente dall’ostilità nei confronti del processo di adesione all’UE, avviato nel 2009 dall’allora premier socialdemocratica Johanna Sigurdardottir e interrotto fra il 2013 e il 2015 dal suo successore Sigmundur Gunnlaugsson. La “Santa Alleanza” contro Bruxelles è stata guidata dall’eco-socialista Katrin Jakobsdottir, che ha mantenuto l’incarico di premier fino alla scorsa primavera finendo per perdere esponenzialmente il proprio sostegno: oltre a lei, nella coalizione di governo c’era il discusso Bjarni Benediktsson, leader del Partito dell’indipendenza, che a sua volta è diventato primo ministro quando Jakobsdottir si è dimessa per tentare una disperata corsa presidenziale, conclusasi con la vittoria della candidata civica Halla Tomasdottir.

“Bjarni Ben”, così è soprannominato, è tradizionalmente un politico molto divisivo e non ci è voluto molto perché, sotto la sua guida, il governo euroscettico crollasse con un anno di anticipo rispetto alla fine della legislatura dopo il ritiro dell’appoggio di Sinistra Verde.

Almeno per una volta, sono stati rispettati i pronostici dei sondaggi e il primo partito del paese è Alleanza Socialdemocratica con il 20%. Il partito di centro-sinistra aveva vissuto un periodo di magra dopo la crisi del sistema bancario avvenuta nel 2008 e che ha causato una profonda recessione dalla quale il paese si è ripreso solo dopo alcuni anni. Oltre ai socialdemocratici, crescono anche i liberali di Rinnovamento, il Partito Popolare e il Partito di Centro che, a dispetto del nome, è il partito schierato più a destra nell’arco costituzionale islandese. Il Partito di Centro è guidato dal discusso ex premier Gunnlaugsson che aveva abbandonato i progressisti prima delle elezioni del 2017 dopo il suo coinvolgimento nello scandalo Panama Papers. Fra i grandi sconfitti ci sono proprio i Progressisti, dimezzati, e Sinistra Verde, finita fuori dal parlamento assieme al Partito Pirata, mentre il Partito dell’Indipendenza, pur indietreggiando bruscamente, perderà solo due dei sedici seggi ottenuti nel 2021.

Per governare il paese servono almeno trentadue scranni sui sessantatre dell’Althing e Alleanza Socialdemocratica è il partito che è cresciuto di più, con quindici seggi (nove in più rispetto a tre anni fa): lunedì l’incarico è stato assegnato a Frostadottir, ma il ruolo di king (o queen)-maker sarà quello di Thorgerdur Gunnarsdottir, la leader liberale che, con i suoi undici parlamentari, può scegliere se sostenere un governo di centro-sinistra o se guardare a destra, dove però la maggioranza sarebbe possibile solo con l’appoggio dei populisti di Gunnlaugsson. Ha prevalso la prima opzione

I segnali sono positivi per Frostadottir, che già nel primo giro di consultazioni con la presidente Tomasdottir ha incassato il benestare di Inga Sæland, coordinatrice del Partito Popolare le cui proposte economiche si avvicinano molto a quelle dei socialdemocratici, sebbene rimangano distanze su ecologia e sovranità nazionale. Anche Gunnarsdottir è della partita: con i liberali, però, potrebbero emergere differenze sulla gestione della spesa pubblica e del welfare.

L’Islanda aveva avviato i negoziati per l’accesso all’Unione Europea nell’estate del 2009 ed era riuscita a completare undici dei trentatré capitoli di accesso, più di quanti ne abbiano conclusi oggi Montenegro e Serbia, rispettivamente a tre e due. Nel 2013, i negoziati di accesso all’Unione europea furono oggetto della campagna elettorale, al termine della quale si impose una maggioranza euroscettica di centro-destra che, nel giro di due anni, e senza un voto formale del parlamento di Reykjavik, ha interrotto la procedura. Proprio da quell’esperienza, Thorgerdur Gunnarsdottir ha abbandonato il Partito dell’Indipendenza per contribuire a creare la nuova formazione liberale favorevole alla riapertura dei trattati europei.

In Islanda solo socialdemocratici e liberali sono apertamente favorevoli al percorso europeo: i due partiti mettono assieme il trentasette per cento dei consensi, ma secondo un sondaggio della scorsa estate, il cinquantaquattro per cento degli islandesi sarebbe favorevole a un referendum per riaprire o meno i negoziati. Anche il Partito Pirata e il Partito Socialista (quest’ultimo all’estrema sinistra) erano favorevoli a un referendum, ma entrambi si sono fermati appena sotto la soglia di sbarramento. Sarà quindi necessario convincere i Popolari, che sulla questione non si sono espressi in questa campagna elettorale, pur avendo storicamente un approccio piuttosto critico in materia. Durante un dibattito tenutosi nella notte fra sabato e domenica, poco dopo il voto, Gunnarsdottir ha detto di ritenere le posizioni del centro-destra sull’Unione europea troppo lontane per avviare una trattativa di governo.

Il Paese è attualmente membro dello Spazio Economico Europeo assieme a Norvegia e Liechtenstein e dell’Associazione di Libero Scambio che include anche la Svizzera: questo significa che, usufruendo della libera circolazione di beni e persone, i paesi membri devono garantire il rispetto di una serie di leggi europee, sulle quali, però, non possono intervenire attraverso un proprio rappresentante in Commissione, tantomeno eleggere i propri membri al Parlamento Europeo.

L’ingresso islandese lascerebbe nello Spazio Economico Europeo la Norvegia e il piccolissimo principato, e proprio Oslo è attesa da una lunga campagna elettorale che porterà al voto del settembre del 2025 dove almeno due partiti (Verdi e Liberali) si sono già espressi perché si tenga un nuovo referendum dopo l’ultimo del 1994 che vide una vittoria di misura del “No”. Anche i Conservatori dell’ex premier (e futura candidata) Erna Solberg sono favorevoli all’ingresso nell’Unione europea, ma non sembrano voler spingere sull’acceleratore, anche a causa dell’opinione pubblica ancora negativa e della presenza nel blocco di centro-destra del Partito del Progresso, di natura euroscettica.

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