Il giusto mezzoPerché l’articolo più saggio e lungimirante della Costituzione è il 138

Come spiega Gianfranco Pasquino su “In nome del popolo sovrano”, l’ultima parte della nostra Carta costituzionale bilancia le esigenze di cambiamento con garanzie contro manipolazioni opportunistiche, evitando sia il blocco totale sia derive plebiscitarie. Le vere riforme devono essere utili ai cittadini, non alle maggioranze di turno

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Quando si discute di come fare le riforme, le risposte sono le più varie anche perché si dimenticano due essenziali distinzioni. La prima corre fra le riforme costituzionali e le riforme elettorali o di altro tipo, comunque non costituzionali. La seconda distinzione riguarda invece le modalità propriamente politiche (ovvero sostanzialmente i rapporti fra partiti e leader) e le modalità specificamente istituzionali. Nessuno dei Costituenti ritenne di avere dato vita alla Costituzione perfetta tanto è vero che a suggello posero l’art. 138 che regolamenta e disciplina i passaggi attraverso i quali possono essere revisionati e riformulati i diversi articoli. Secondo i Costituenti tutto può essere riformato con una sola eccezione: «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale».

Gli studiosi sostengono che la Costituzione italiana è rigida (e allora quella statunitense: rigidissima?) poiché le modifiche possono esservi introdotte con l’osservanza di procedure relativamente – ma nient’affatto troppo – complesse: due votazioni in ciascuna Camera a distanza «non minore» di tre mesi l’una dall’altra e, si dice, con maggioranze elevate. In realtà le maggioranze elevate, ovvero i due terzi nella seconda lettura di entrambe le Camere, non sono essenziali per l’approvazione di nessuna modifica costituzionale: servono soltanto a evitare che sia richiesto un referendum contro quella specifica modifica; la preoccupazione dei Costituenti riguardava la sconfessione, vale a dire l’eventuale delegittimazione a opera del referendum popolare, di un Parlamento che avesse approvato con la maggioranza qualificata dei due terzi quella riforma.

D’altro canto, i Costituenti ritennero opportuno concedere ai cittadini il potere di respingere riforme non gradite che fossero risultate già controverse in Parlamento, approvate da una maggioranza assoluta, ma risicata, magari coincidente con la maggioranza di governo, e contrastate da un’opposizione composta da almeno un quinto dei parlamentari, eventualmente con rappresentanza maggioritaria in almeno cinque Regioni, oppure capace di mobilitare cinquecentomila cittadini. Anzi, a quei cinquecentomila cittadini, espressione più o meno organizzata di una società civile attiva, era cosa buona e giusta attribuire il potere autonomo di chiedere un referendum costituzionale.

Quanto al periodo non minore di tre mesi fra una lettura e l’altra, l’obiettivo dei Costituenti era quello di garantire uno spazio per il dibattito sui mass media e nell’opinione pubblica affinché, da un lato, i proponenti delle riforme potessero argomentarle, spiegarle e giustificarle, ma soprattutto, dall’altro, potessero emergere e circolare le posizioni, le preferenze, le critiche, le alternative che non avessero avuto modo di esprimersi in Parlamento. Definirei questi mesi di possibile dibattito pubblico un sano intervallo pedagogico del quale in Italia si ha sempre molto bisogno. Infine, i Costituenti ritennero che i referendum costituzionali non dovessero avere quorum, vale a dire la necessità di una predeterminata percentuale di partecipanti per produrre effetti.

Insomma, da un lato, i fautori delle riforme erano chiamati a difenderle e a dimostrare, convincendoli, che i cittadini le condividevano e le sostenevano con il loro voto. Dall’altro, l’onere di provare che la cittadinanza non si sentiva rappresentata da quelle riforme e non le gradiva toccava agli oppositori e la prova inconfutabile e decisiva consisteva nel convincere quei cittadini ad andare alle urne. Infine, i cittadini interessati alle riforme, informati e partecipanti dovevano essere premiati. Il loro voto merita di essere decisivo rispetto al non-voto dei cittadini non interessati, non informati, che se ne stanno a casa oppure vanno al mare (molti referendum si sono tenuti nel mese di giugno) a prescindere dal numero e dalla percentuale dei votanti.

L’art. 138 è scritto in maniera saggia e lungimirante. Ma i politici italiani ne hanno fatto un uso talvolta dissennato. Per esempio, approvate nel marzo 2001 le sue non proprio brillantissime variazioni al Titolo V della Costituzione, il centrosinistra avrebbe potuto astenersi dal chiedere un referendum popolare per dimostrare (a chi? forse a se stesso?) che aveva fatto una buona riforma. Tenutosi il referendum nell’ottobre 2001, dopo le elezioni politiche perse dal centrosinistra nell’aprile dello stesso anno, quel trentaquattro per cento di elettori referendari che ratificarono le riforme finirono per riflettere esclusivamente un consenso politico declinato.

Di manipolazioni dell’art. 138 ve ne possono essere altre due modalità. La prima è stata proposta da coloro che, in realtà, non vogliono che sia fatta nessuna riforma costituzionale. Costoro hanno affermato che qualsiasi riforma dovrebbe essere approvata da maggioranze parlamentari dei due terzi. È la tesi che sconfina con quella di coloro che, alquanto ipocritamente, sostengono che le riforme debbono essere approvate dalle maggioranze più ampie possibili. Non credo di sbagliare se attribuisco ai Costituenti la seguente risposta: «le riforme costituzionali debbono essere approvate e sfidate come dice l’art. 138. Niente di più e niente di meno. Le garanzie ci sono tutte e per tutti».

D’altronde, è evidente che, da un lato, maggioranze superiori ai due terzi potrebbero non materializzarsi mai, mentre si configurerebbe un deplorevole potere di ricatto e di veto per minoranze, probabilmente eterogenee, di poco più di un terzo dei parlamentari. Dall’altro, con l’esigenza di supermaggioranze si farebbero soltanto – esito a mio avviso ancora più grave – riforme di scarsa importanza, non conflittuali, che non colpirebbero nessuna situazione di interessi costituiti.

Chi volesse mettere mano all’art. 138 per dare più potere ai cittadini italiani dovrebbe chiedere che il referendum sia comunque e sempre possibile, a richiesta, a prescindere dalla dimensione numerica delle maggioranze che hanno approvato ciascuna specifica riforma. L’annuncio che il governo Renzi avrebbe comunque chiesto un referendum sulle sue riforme costituzionali non era una gentile concessione democratica: aveva piuttosto le sembianze di una minaccia di stampo, più o meno consapevolmente, plebiscitario.

Rimanendo nell’ambito del metodo costituzionalmente preferibile per la formulazione e l’approvazione di riforme costituzionali, a fronte dei non-risultati delle Commissioni bicamerali, spesso si sono levate voci a richiedere una Assemblea Costituente. A mio parere si può avanzare una obiezione preliminare, forse dirimente. In qualsiasi modo, comunque da discutere, fosse formata, l’Assemblea Costituente alla quale venisse attribuito il compito di riformare la Costituzione (la distinzione fra prima parte, relativa ai diritti, spesso dichiarata da non riformarsi, e seconda parte, relativa all’ordinamento dello Stato, tutta esposta alle proposte riformatrici, mi pare sbagliata e pericolosa: gli articoli della Costituzione si «tengono insieme») darebbe automaticamente un colpo molto forte alla legittimità della Costituzione esistente.

In un certo senso, la sospenderebbe in attesa delle riforme che verranno. Per di più l’Assemblea Costituente si troverebbe caricata di enormi aspettative e responsabilità, obbligata a produrre rapidamente un esito complessivo. Dovrebbe essere formata da parlamentari regolarmente (e appositamente) eletti nelle elezioni politiche e delegati dai loro gruppi/ partiti? Se il Parlamento fosse stato eletto con un sistema maggioritario, la stessa Assemblea Costituente avrebbe una composizione che non rappresenterebbe in maniera equa, fair, le opinioni costituzionali della cittadinanza.

Dovrebbe l’Assemblea Costituente essere eletta in contemporanea con il Parlamento, ma con schede differenti e con un sistema elettorale proporzionale? Quali sarebbero le probabilità che un’Assemblea eletta secondo queste modalità, composta da un numero di rappresentanti che non può essere molto elevato (cento? centoventi?), riesca a scrivere in tempi relativamente brevi (un anno e mezzo o poco più, che fu il tempo impiegato dai Costituenti) una nuova Costituzione superando la prevedibile frammentazione interna?

Se non vi riuscisse, quanto forte sarebbe il contraccolpo di credibilità della classe politica (a meno che, Dio non voglia, in quell’Assemblea fossero in qualche modo stati collocati soltanto esperti, saggi e professoroni, ma anche i gufi meritano rappresentanza)? Insomma, il metodo costituzionale per formulare, discutere, approvare ed eventualmente respingere o confermare le riforme è quello stabilito dai Costituenti nell’art. 138: via parlamentare, eventuale referendum costituzionale popolare.

Forse non è neppure pedante da parte mia sottolineare che buone riforme, ovvero riforme che al tempo stesso danno più potere ai cittadini e più efficienza alle istituzioni, senza avvantaggiare nessun partito, nessuna coalizione, nessuno schieramento, convincentemente argomentate, troverebbero una via facilmente percorribile.

Invece, i buonisti delle riforme, che raramente coincidono con coloro che fanno buone riforme, auspicano in maniera talvolta lamentosa, il ricorso ad ampie maggioranze che sarebbero quasi sicuramente confuse ammucchiate. In maniera più colta – ma la sostanza rimane la stessa –, qualcuno (per esempio, ripetutamente, il Presidente Napolitano) ha in maniera accorata invitato ad ampie convergenze.

Ho già detto che, tranne in rarissimi casi, le convergenze saranno amplissime quasi esclusivamente se le riforme approvate risulteranno di bassissima rilevanza e incidenza. Non credo che per dare sostanza alle grandi maggioranze sia corretto rifugiarsi nel latino dichiarando in maniera solenne che quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Infatti, la frase latina potrebbe sembrare un invito all’unanimità dell’approvazione, mentre credo che probari sia da intendersi correttamente come «da accettare».

Sappiamo da alcuni studi (il più acuto è quello di Anderson et al. 2005) che i perdenti accettano la sconfitta se sanno in anticipo che non perdono tutto, vale a dire se non temono che vengano loro tolte le risorse minime necessarie per ribaltare, prima o poi, la loro sconfitta. Peraltro, è verissimo che suona molto male fare riforme «a colpi di maggioranza», anche se a me pare del tutto logico e apprezzabile che quando una maggioranza, non soltanto numerica, esiste davvero abbia il dovere di battere ben più di un colpo.

Comunque, dipende da quale maggioranza, ma se è posticcia, casuale, opportunistica, qualsiasi maggioranza batterà pochi colpi. Dipende anche dalla riforma proposta sulla quale, dopo il «colpo» fatto (battuto) dalla maggioranza, rimarrà comunque aperta e percorribile la strada del referendum costituzionale che dovrebbe essere chiesto da chi si oppone alle riforme e chiede ai suoi concittadini di bocciarle. È dunque sbagliato l’aggettivo «confermativo» che semmai designerebbe l’esito. Il referendum chiesto, anzi imposto, dalla maggioranza stessa che ha fatto quelle riforme ha lo sgradevole sapore del plebiscito.

Tratto da “In nome del popolo sovrano”, di Gianfranco Pasquino, Egea, 168 pagine, 14,99 euro

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