Aloha firstLa propaganda di Tulsi Gabbard e gli anticorpi del senato americano

Le posizioni ambigue dell’ex deputata democratica su Russia e Siria e la sua critica ai programmi di sorveglianza rendono complicata la sua nomina a direttore di tutte le agenzie di intelligence americane. In Commissione basterebbe il dissenso della moderata Collins per fermare la prescelta di Trump. E anche un eventuale voto in Aula sarebbe incerto

LaPresse

Una delle grandi linee di demarcazione tra il primo e il secondo mandato di Donald Trump è rappresentata dall’abbandono dei confini storici del conservatorismo. Nella sua coalizione vincente, era ben visibile la presenza di ex democratici di sinistra noti per le forti venature anti-sistema della loro posizione politica. Uno di questi è Robert Kennedy Junior: l’esponente della nota famiglia di politici dem del Massachusetts è stato scelto dal neopresidente come segretario alla Salute. Una scelta discutibile non soltanto per le sue note posizioni complottiste e no vax sul tema, ma anche per il suo trasformismo politico: iscritto alle fila dem fino al novembre 2023, è diventato prima indipendente e poi, una volta che la sua campagna presidenziale terzista si è arenata per mancanza di fondi e di idee, è diventato un soldato dell’esercito trumpista, sia pur senza l’affiliazione repubblicana.

Ancora più estremo invece è il caso di Tulsi Gabbard, nominata per guidare il coordinamento delle varie agenzie di intelligence: l’ex deputata delle Hawaii viene da un passato da deputata dem, vicina alle posizioni di Bernie Sanders in politica estera tanto da sostenerlo alle primarie del 2016, già all’epoca aveva posizioni molto eterodosse, tanto da dichiarare che l’amministrazione di Barack Obama stesse aiutando i ribelli siriani contro il dittatore Bashar Al-Assad anche se questi, a suo avviso, erano di «Al-Qaeda». Il suo sostegno al “laico” leader siriano l’ha portata, nel 2017, a viaggiare nel paese ospitata dal regime. Riguardo alla guerra civile appena conclusa, non ha mai creduto che fossero state usate, da parte governativa, armi chimiche, citando un discusso professore del Mit, Theodore Postol, a riguardo.

Negli ultimi anni ha rincarato la dose, accusando i democratici di essere diventati il «partito della guerra» e di non aver compreso che il pericolo vero veniva dall’islamismo radicale. Posizione che l’ha gradualmente avvicinata alla cerchia di Donald Trump, che ha visto in lei il simbolo di quella sinistra che, partendo da posizioni fortemente critiche dei programmi di sorveglianza globale varati dalla National security agency (Nsa) ai tempi delle Amministrazioni Bush e Obama, ha visto proprio nel tycoon il suo vendicatore, colui che avrebbe distrutto quella sinistra «ipocrita».

Tanto che anche nell’audizione di fronte alla commissione intelligence del Senato nella giornata di giovedì 30 gennaio, si è rifiutata di dire che il whistleblower Edward Snowden, rifugiatosi poi in Russia, era un traditore bensì uno che aveva soltanto «infranto la legge». Di fronte a lei c’era il senatore Tom Cotton dell’Arkansas, un falco anti cinese che stranamente si è ammorbidito di fronte a un profilo come quello di Gabbard che, qualora avesse fatto parte dell’amministrazione di Joe Biden avrebbe visto come il fumo negli occhi. Anche quando sull’invasione russa dell’Ucraina si è limitata ad ammettere che è «colpa di Putin», dopo che per mesi nel 2022 aveva parlato delle «legittime preoccupazioni di Vladimir Putin» riguardo alla sicurezza della Russia.

Gabbard ha anche affermato di non essere «burattina di nessun dittatore straniero» né di aver alcuna simpatia per loro. Semplicemente odia Al Qaeda, così ha detto. L’evasività delle sue risposte di fronte a scettici come il repubblicano Todd Young dell’Indiana lasciano spazio ai dubbi. Non c’è stata una performance tale da dissiparli. Anzi, è possibile che non passi di fronte alla Commissione, divisa tra nove repubblicani e otto democratici. Basterebbe il voto della moderata Susan Collins del Maine ad affossarne la nomina.

Non definitivamente però: a quel punto il leader repubblicano al Senato John Thune potrebbe proporla di fronte all’assemblea, dove però avrebbe un destino altrettanto incerto. La già citata Susan Collins, insieme alla collega Lisa Murkowski dell’Alaska, quasi sicuramente non la voteranno. Lo stesso dovrebbe fare l’ex capogruppo Mitch McConnell che ha già fatto sapere che terrà la barra dritta sulle questioni di sicurezza nazionale, libero dal giogo della leadership e dalla necessità di essere un team player all’età di ottantadue anni, per giunta per un presidente con cui è in pessimi rapporti.

Lo ha già dimostrato tentando di affossare la nomina del neosegretario alla difesa Pete Hegseth, un reduce di guerra ed ex conduttore televisivo da lui ritenuto «assolutamente non qualificato». A quel punto, su cinquantatré voti disponibili (nessun democratico dovrebbe sostenere la “voltagabbana” Gabbard), ne restano cinquanta. E qualora i senatori decidessero di giocarsi un momento di indipendenza da Trump, la nomina di Gabbard offrirebbe loro la possibilità di subire meno contraccolpi a livello politico, specie se sono stati appena rieletti oppure hanno intenzione di ritirare.

Peraltro Gabbard, rispetto a Hegseth, ha un handicap: non fa parte della storia del partito repubblicano, nemmeno delle sue frange più estreme e radicali. Semplicemente è lì per volere di Donald Trump e di nessun altro. E gli elogi che ha ricevuto da uno come Tom Cotton non ci sarebbero stati senza questo importante sostegno. Che però fotografa la realtà di un partito ridotto ormai a essere l’ufficio propaganda del culto della personalità trumpiano.

X