Camillo di Christian RoccaIl Nigergate è una barzelletta

Ma davvero si crede alla favola che la guerra in Iraq sia stata motivata anzi giustificata col pretesto del falso dossier italo-francese sul Niger? L’affermazione è talmente risibile che è proprio Repubblica, per un attimo libera da scorie di giornalismo militante, a riconoscere l’infondatezza della sua stessa tesi. Domenica, infatti, in un articolo di cronaca pubblicato sul suo sito Internet, il giornale del Nigergate ha scritto queste illuminanti parole che in un paese serio avrebbero chiuso la questione una volta per tutte: “Gli sviluppi del Nigergate che, qui (in America, ndr), appare una vicenda interna italiana, perché gli Stati Uniti non hanno mai citato documenti italiani in merito, ma intelligence propria e documenti britannici”. Ed è esattamente così come la mette Repubblica: “Gli Stati Uniti non hanno mai citato documenti italiani”. Ammesso che la tesi complottistica del duo Bonini-D’Avanzo sia veritiera, ma abbiamo dimostrato per tabulas che non torna; ammesso cioè che i servizi italiani e il compiacente governo Berlusconi abbiano, non si capisce bene per quale motivo, rifilato la patacca agli alleati della Casa Bianca; ammesso e non concesso tutto ciò, resta che quella patacca non è stata usata per giustificare la guerra. E lo riconosce, con questo formidabile contro-scoop, la stessa Repubblica: “Gli Stati Uniti non hanno mai citato documenti italiani in merito, ma intelligence propria e documenti britannici”.
Ma non c’è soltanto una frase di Repubblica a smentire l’inchiesta di Repubblica. Eccole, le prove. George Bush nel discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio  2003 ha pronunciato le 16 parole che, secondo l’accusa, sarebbero la smoking gun del ruolo italiano nella guerra in Iraq. In realtà sono la prova dell’infondatezza della tesi di Repubblica: “Il governo inglese ha appreso che recentemente Saddam Hussein ha cercato di acquisire significative quantità di uranio dall’Africa”. Bush, dunque, ha citato informazioni inglesi, non italo-francesi. Ha parlato di tentativo di acquisto, non di contratto di acquisto come risultava dai falsi documenti italo-francesi. E ha parlato di paesi africani, non solo di Niger (c’erano anche Congo e Somalia).
I sospetti e gli scarti logici dell’inchiesta militante di Repubblica non tengono mai conto di questo fatto, provano ad aggirarlo ipotizzando che il dossier italo-francese sia alla base dei rapporti di intelligence britannici citati da Bush. E’ così? No, non è così. La Commissione indipendente britannica di Lord Butler che ha revisionato tutte le attività di intelligence dei servizi inglesi a proposito delle armi di Saddam, nel rapporto finale ha tolto di mezzo questo dubbio: “Dal nostro esame dell’intelligence e degli altri materiali sui tentativi iracheni di comprare uranio dall’Africa, possiamo concludere che: al momento in cui sono state fatte le valutazioni, quei documenti falsi non erano a disposizione del governo inglese, sicché il fatto che fossero falsi non le indebolisce”.
I documenti italo-francesi su cui ricama Repubblica non erano dunque alla base delle parole di Bush, il quale si riferiva all’intelligence britannica, né alla base delle valutazioni dei servizi inglesi. Al punto che, sempre secondo la commissione Butler, “la dichiarazione del presidente Bush allo Stato dell’Unione era ben fondata”.
Le indagini della Commissione bipartisan del Senato americano sull’Intelligence hanno concluso allo stesso modo: fino a quando (ottobre 2002) l’agente francese Rocco Martino non consegnò i falsi documenti (fabbricati nel 2000) a una giornalista di Panorama e poi dalla giornalista all’ambasciata americana a Roma, “per gli analisti era ragionevole sostenere che l’Iraq poteva aver cercato uranio dall’Africa sulla base delle informazioni della Cia e di altre intelligence disponibili”. Su questo non ci sono dubbi. Sono dati di fatto incontestati e accertati dopo lunghe inchieste, i cui rapporti finali sono stati votati anche dall’opposizione a Bush.
Ma il punto non è soltanto il risibile caso Niger, mai citato da Bush. Più in generale, è una barzelletta sostenere che il cambio di regime a Baghdad sia stato motivato soltanto con il timore che Saddam si dotasse di armi di distruzione di massa. Fin dall’inizio, in un contesto di continue violazioni irachene delle risoluzioni delle Nazioni Unite, le motivazioni sono state tre: le armi di distruzione di massa, i legami con al Qaida e il progetto di ridisegnare la mappa del medio oriente abbattendo le dittature. Tutte e tre le motivazioni sono state sempre presentate insieme e non è certo colpa di Bush o di Tony Blair se, per anni, la Repubblica non ha mai raccontato il progetto democratico della Casa Bianca, preferendo spiegare che si trattava di una guerra per il petrolio, per l’imperialismo o, quando andava bene, per le armi di distruzione di massa. Tra l’altro i republicones non notano un’altra delle tante contraddizioni della loro ricostruzione: i cattivi neoconservatori alla Paul Wolfowitz e alla Douglas Feith e alla Michael Ledeen che, secondo loro, erano alla ricerca spasmodica di prove di qualsiasi tipo pur di giustificare la guerra in Iraq, in realtà erano quelli meno interessati al dossier armi. Come è noto a chiunque, anche ai lettori di Repubblica, Wolfowitz e Feith e Ledeen volevano cambiare il regime di Saddam per poter innescare la rivoluzione democratica in medio oriente. Wolfowitz arrivò a sostenere, in una rumorosa intervista su Vanity Fair a Sam Tannenhaus, che il capitolo armi tutto sommato era un pretesto per convincere la burocrazia interna all’Amministrazione, più che il vero motivo d’azione in Iraq.
Le armi e la violazione delle risoluzioni Onu hanno avuto certamente maggior peso mediatico ed erano le favorite dai democratici pro-war, ma era il terzo punto, quello della democrazia in medio oriente come arma di distruzione di massa dell’islamismo radicale e del nazionalismo panarabo, ad aver ispirato Iraqi Freedom. Anche qui, fatti non parole. Fatti, non solo una pagina del Foglio del marzo 2003 titolata “Riusciranno i nostri eroi a esportare la democrazia in medio oriente?” a cui, pochi giorni fa, ha risposto affermativamente un editoriale di Repubblica dal titolo: “E’ esportata, ma è democrazia”.
La motivazione democratica è scritta a chiare lettere addirittura nella risoluzione del 2002, votata un anno solare prima della guerra, con cui il Congresso ha autorizzato il presidente a usare la forza militare. Passata anche col voto dei Democratici, la risoluzione dice esplicitamente che, come già previsto dall’Iraq Liberation Act firmato da Bill Clinton, “la politica degli Stati Uniti deve essere quella di sostenere gli sforzi per rimuovere dal potere l’attuale regime iracheno e di promuovere la nascita di un governo democratico che rimpiazzi quel regime”.
Qualche giorno prima, il 19 settembre 2002, Bush aveva anticipato al paese il testo della risoluzione e alla domanda di un giornalista che chiedeva se l’obiettivo del “cambio di regime” facesse parte della risoluzione, ha risposto: “Sì, questa è la politica del governo”.
Anche nel famoso documento sulla Strategia Nazionale di Sicurezza dell’estate 2002, quello passato alla storia come la codificazione del diritto al first strike, compare in più punti l’idea di promuovere la democrazia per rendere più sicura l’America. Il primo capitolo dal titolo “Descrizione generale della strategia internazionale dell’America” comincia così: “Gli Stati Uniti possiedono una forza e un’influenza senza precedenti, e senza pari, nel mondo”. Potenza eccezionale significa anche responsabilità eccezionali: “Sostenuta dalla fede nei principi della libertà, questa posizione si carica però anche di responsabilità, obblighi ed occasioni senza precedenti. La grande forza di questa nazione deve essere utilizzata per promuovere un equilibrio di potere che favorisca la libertà”. Del capitolo 7 basta il titolo: “Incremento dello sviluppo con l’apertura delle società e la costruzione delle infrastrutture democratiche”.
Restiamo sempre ai documenti ufficiali. Nel discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, precedente di un anno a quello delle famose 16 parole, Bush ha detto che “l’America starà sempre fermamente al fianco delle non negoziabili richieste di dignità umana: stato di diritto, limiti al potere dello Stato, rispetto delle donne, proprietà privata, libertà di parola; giustizia equa e tolleranza religiosa. L’America sarà sempre a fianco degli uomini e delle donne coraggiose che reclamano questi valori nel mondo, incluso nel mondo islamico”. Perché crede di essere più buona? No, “perché ha un obiettivo più grande che non la semplice eliminazione delle minacce e del contenimento del rancore. Noi oltre la guerra al terrore, cerchiamo un mondo giusto e pacifico”. L’obiettivo, già pochi mesi dopo l’11 settembre, è sconfiggere il terrorismo che si dota di armi di sterminio ma anche, contemporaneamente, promuovere la democrazia cambiando i regimi dittatoriali. Tra le due cose ci sarà un rapporto?
Il 7 settembre del 2002, a una giornalista che chiedeva a Bush quale fosse “davvero il suo obiettivo in Iraq: le armi di distruzione di massa o Saddam Hussein?”, Bush rispose così: “L’Amministrazione Clinton ha sostenuto il cambio di regime. Molti senatori hanno sostenuto il cambio di regime. La mia Amministrazione continua a sostenere il cambio di regime”. La democrazia, non le armi, tantomeno i documenti falsi sull’uranio del Niger che, al momento di questa intervista, non erano ancora stati consegnati dall’agente francese Rocco Martino alla giornalista di Panorama.
Ancora. Siamo sempre nel 2002, prima della guerra. A Cincinnati, citando un ispettore dell’Onu, Bush ha spiegato perché tra tutti i regimi con armi di distruzione di massa sarebbe stato necessario fermare proprio l’Iraq: “Il problema fondamentale dell’Iraq è la natura stessa del suo regime”. Bush sperava ancora che Saddam accettasse di adempiere alle risoluzioni Onu, se lo avesse fatto non ci sarebbe stata la guerra. Ma non era una semplice questione di disarmare l’Iraq. Sempre in quel discorso, Bush infatti ha detto che se Saddam avesse adempiuto agli obblighi imposti dalla comunità internazionale sarebbe stato un fatto così clamoroso che avrebbe, di per sé, “cambiato la natura stessa del regime iracheno”.
Stessa cosa nei giorni seguenti, alle domande dei giornalisti su quale fosse il vero obiettivo, le armi o Saddam, Bush ha sempre detto: il cambio di regime. Oltre alle armi, insomma, c’era da abbattere la dittatura. Tutto riscontrabile nelle cronache dei giornali (americani). Arriviamo al 2003. Ventisei febbraio, un mese prima dell’inizio della guerra, discorso di Bush all’American Enterprise Institute. Qui la citazione è lunga, perché di armi praticamente non parla: “Intervenire per rimuovere la minaccia contribuirà in modo essenziale alla costruzione di una sicurezza e stabilità durature per il nostro pianeta. L’attuale regime iracheno ha dimostrato ampiamente come la tirannia abbia la capacità di diffondere la discordia e la violenza in tutto il medio oriente. Un Iraq liberato mostrerà come la libertà abbia la forza di trasformare questa regione di importanza vitale, portando speranza e progresso nella vita di milioni di persone. La preoccupazione dell’America per la sicurezza e la sua fede nella libertà conducono nella stessa direzione: a un Iraq libero e pacifico. I primi a trarre vantaggi da un Iraq libero saranno gli stessi iracheni. Oggi vivono nella miseria e nella paura, sotto il giogo di un dittatore che non gli ha dato altro che guerra, povertà e tortura. La loro vita e la loro libertà non contano niente per Saddam; ma per noi sono assolutamente importanti. Portare la stabilità e l’unità in un Iraq libero non sarà facile. Ma questa non è una scusa per lasciare che le camere di tortura e i laboratori di armi chimiche del regime iracheno continuino a funzionare. Qualunque futuro si sceglierà il popolo iracheno sarà sempre migliore dell’incubo in cui li costringe a vivere Saddam”.
E ancora: “Gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di stabilire la forma precisa del nuovo governo iracheno. Questa scelta appartiene al popolo dell’Iraq. Tuttavia, non permetteremo che un brutale dittatore sia sostituito da un altro uguale a lui. Tutti gli iracheni dovranno avere voce in capitolo nel nuovo governo, e a tutti i cittadini dovranno essere garantiti i propri diritti. La ricostruzione dell’Iraq richiederà l’impegno attivo di molte nazioni, compresa la nostra: resteremo in Iraq per tutto il tempo necessario, e non un giorno di più. L’America ha già preso e rispettato in passato questo tipo di impegno: nella pace seguita alla Seconda guerra mondiale. Dopo avere sconfitto i nemici, non abbiamo lasciato eserciti d’occupazione ma Costituzioni e Parlamenti. Abbiamo creato un’atmosfera di sicurezza, grazie alla quale capi locali riformisti hanno potuto dare vita a stabili istituzioni di libertà. Nelle società che avevano nutrito il fascismo e il militarismo, la libertà ha messo radici permanenti. Ci fu un momento in cui molti dissero che il Giappone e la Germania erano incapaci di vivere nel rispetto dei valori democratici. Ebbene, si sbagliavano. Oggi alcuni dicono la stessa cosa dell’Iraq. Si sbagliano anche loro. La nazione irachena – con la sua prestigiosa eredità culturale, le sue abbondanti risorse e la sua capace e istruita popolazione – è perfettamente in grado di muoversi verso la democrazia e verso una vita vissuta in piena libertà”. Come riconosce ora anche Repubblica.
La guerra non era ancora iniziata, si parlava molto delle armi di sterminio, ma Bush esplicitava anche il suo progetto democratico: “Il mondo ha un evidente interesse nella diffusione dei valori democratici, perché le nazioni solide e libere non alimentano le ideologie della violenza. Incoraggiano invece la ricerca di una vita migliore. E nel medio oriente ci sono segnali di una voglia di libertà che danno molte speranze. Gli intellettuali arabi hanno invitato i governi degli Stati arabi ad affrontare il problema della ‘mancanza di libertà’, in modo che i loro popoli possano avvantaggiarsi pienamente dei progressi della nostra era. I leader della regione parlano di una nuova Carta degli Arabi che promuova le riforme interne, una maggiore partecipazione politica, l’apertura e la trasparenza economica, e il libero commercio. Dal Marocco al Bahrein e anche oltre, le nazioni stanno facendo passi concreti in direzione delle riforme politiche. Un nuovo regime in Iraq rappresenterà un esempio di libertà straordinario e ispiratore per altre nazioni della regione. E’ una cosa presuntuosa e insultante sostenere che un’intera regione del mondo – o un quinto dell’umanità, di religione musulmana – sia in qualche modo sorda alle più fondamentali aspirazioni della vita. Le culture possono essere diverse tra loro. Ma, in qualsiasi parte del mondo, il cuore dell’uomo desidera le stesse buone cose. Il desiderio di vivere al sicuro dall’oppressione dei violenti e dei prepotenti è condiviso da tutti gli uomini, così come la preoccupazione per i propri figli e la speranza che abbiano una vita migliore. Per queste fondamentali ragioni, la libertà e la democrazia avranno sempre e dovunque un fascino e un richiamo molto superiore a quello degli slogan fomentatori d’odio e della strategia del terrore”.
Il 16 marzo, al summit atlantico alle Azzorre, a poche ore dall’inizio della guerra, Bush presentò un documento con Tony Blair e José María Aznar (assente Silvio Berlusconi) che diceva: “Noi vorremmo sottoporci a un impegno solenne per aiutare il popolo iracheno a costruire un nuovo Iraq in pace con se stesso e con i vicini. Gli iracheni meritano di essere sollevati dall’insicurezza e dalla tirannia, e liberati per autodeterminare il futuro del loro paese. Sosterremo le aspirazioni per un governo rappresentativo che consideri i diritti umani e lo stato di diritto come pietre miliari della democrazia”.
La guerra non era ancora iniziata in quel momento. Tre giorni dopo, l’intervento armato fu annunciato con queste parole: “Cari cittadini, a quest’ora le forze americane e della coalizione, hanno appena iniziato le operazioni militari per disarmare l’Iraq, liberare il suo popolo, e difendere il mondo da un grave pericolo”. Tutti e tre gli argomenti insieme, di Niger neanche l’ombra.
Il 7 novembre 2003, pochi mesi dopo la caduta di Baghdad, al National Endowment for Democracy Bush ha rispiegato la dottrina del virus democratico, simile a quella attuata venti anni fa da Ronald Reagan: “Creare un Iraq libero nel cuore del medio oriente sarà un evento spartiacque”.

Il nuovo capitolo Chalabi
Ieri Repubblica ha riposizionato il mirino e ha raccontato in un’altra storia, peraltro già edita, l’incontro romano tra uomini vicini al Pentagono, al Sismi e all’opposizione iraniana e irachena. Il tentativo del nuovo fronte di Repubblica è quello di collegare al cosiddetto Nigergate un ulteriore capitolo di spie, documenti e lotte politiche. Al centro della nuova cospirazione, il giornale mette l’iracheno Ahmed Chalabi, l’ex favorito del Pentagono che la Cia un giorno accusa di essere una spia israeliana e il giorno dopo al soldo di Teheran. Il nome di Chalabi, grazie alle veline Cia, è una specie di marchio di fabbrica per ciò che riguarda intelligence deviate e informazioni sballate sulle armi di Saddam. I due inchiestisti di Repubblica, però, non raccontano i fatti. Primo fatto dimenticato: Chalabi è uno dei leader, anzi l’animatore, della lista sciita che ha vinto le elezioni in Iraq. Ed è il vicepremier democraticamente eletto dal popolo iracheno. Secondo: negli anni dell’esilio, Chalabi non è stato finanziato da Cheney o, perlomeno, non è stato finanziato soltanto da Cheney ma, guarda un po’, da Bill Clinton. L’Iraq Liberation Act, infatti, fu approvato negli anni clintoniani, nel 1998, e porta la firma del presidente democratico. Quella legge riconobbe alle forze d’opposizione irachene, poi raccoltesi nell’Iraqi National Congress di Chalabi, denaro e sostegno militare americano. La legge fu presentata al Senato dal repubblicano Trent Lott e dal democratico Joe Lieberman. Chi è Joe Lieberman? E’ l’uomo politico che, due anni dopo, fu l’avversario diretto di Cheney per la vicepresidenza degli Stati Uniti. E fu lui, l’avversario di Cheney, a finanziare Chalabi. A Rep. deve essere sfuggito. Non solo. Nel dibattito presidenziale del 2000 tra George Bush e Al Gore, il candidato democratico disse: “Voglio andare oltre. Voglio dare un forte sostegno ai gruppi che stanno cercando di destituire Saddam Hussein”. Di nuovo: Chalabi. L’Iraq liberation act finanziò il gruppo di Chalabi con 97 milioni di dollari e impose agli Stati Uniti la politica del regime change in Iraq. Con queste parole: “Dichara che dovrà essere la politica degli Stati Uniti cercare di rimuovere il regime di Saddam Hussein dal potere in Iraq e di sostituirlo con un governo democratico”.
Quanto al ruolo di Chalabi a proposito delle cattive informazioni sulle armi di distruzione di massa arrivate in occidente, il rapporto bipartisan del Senato Robb-Silberman sulle armi di sterminio ha svelato che il famoso “Curveball”, cioè l’autore dei report non veritieri sulle armi di Saddam non era Chalabi, come avevano insinuato i grandi giornali liberal imbeccati dalla Cia di George Tenet. Non solo. Curveball “non era influenzato né controllato dall’Iraqi National Congress”, cioè dal partito di Chalabi. Soltanto due esperti di armi forniti da Chalabi all’Amministrazione Bush erano piccoli falsari, ma ebbero un ruolo “minimo” nella valutazione americana che portò alla guerra: “In realtà – si legge nel rapporto bipartisan – tutte le inchieste della Cia successive alla guerra rivelano che le fonti legate all’Iraqi National Congress hanno avuto un impatto minimo nelle valutazioni precedenti alla guerra”.
Visto che ci siamo, altre due cose. La stessa commissione Robb-Silberman ha scritto di “non aver trovato prove di pressione politica per influenzare le valutazioni pre-guerra della comunità di intelligence sui programmi d’armamento dell’Iraq”. L’altra Commissione del Senato, sempre bipartisan, che ha indagato sul fallimento dell’intelligence ha concluso a pagina 284 di “non aver trovato nessuna prova che funzionari dell’Amministrazione abbiano tentato di costringere, influenzare o premere sugli analisti per cambiare i loro giudizi sulle capacità irachene sulle armi di distruzione di massa”. E, nella pagina successiva, la Commissione dice di “non aver trovato prova che le visite del vice presidente (Cheney, ndr) alla Cia fossero tentativi di far pressione sugli analisti, né che fossero percepiti come intesi a fare pressione sugli analisti da coloro che partecipavano alle riunioni sui programmi iracheni sulle armi, né che fossero pressioni sugli analisti per cambiare le loro valutazioni”.

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