Arabic PortraitsLa rivoluzione dei rossetti

C'e una cosa alla quale non riesco ancora ad abituarmi vivendo qui, il velo nero che copre il corpo, e a volte anche il viso, delle donne. Sagome nere, senza forma, che camminano oppresse da pesant...

C’e una cosa alla quale non riesco ancora ad abituarmi vivendo qui, il velo nero che copre il corpo, e a volte anche il viso, delle donne. Sagome nere, senza forma, che camminano oppresse da pesanti stoffe scure. A Dubai, dove il 90% della popolazione é straniera (su quasi due milioni di abitanti), si mescolano donne provenienti da molti Paesi musulmani: Egitto, Marocco, Tunisia, Algeria, Siria, Giordania, Turchia, Iran, Libano, Arabia Saudita, Barhein, Quatar. C’é chi porta il niqab, che lascia intravedere solamente gli occhi, chi l’abaya, che copre corpo e capelli, chi ha nascosto tutto il volto dal burqa, chi usa mascherine di cuoio o metallo che alterano i lineamenti, chi ha solamente la testa e il collo coperti da un foulard, l’hijab. All’inizio mi indignavo: invisibili, nascoste, negate, private di una parte di sé, della libertá di esprimere la propria femminilitá. Non potevo fare a meno di guardare ogni loro gesto e movimento. Come possono sopportare tutto questo?

Poi ho provato ad abbandonare i miei pregiudizi di donna occidentale. E ho visto altro. Partendo dalla fierezza con cui camminano, dalla naturalezza con cui scostano il velo per bere o mangiare, dai preziosi ricami delle stoffe nere che le ricoprono, dagli occhi truccati, dai disegni con l’henné che decorano mani e braccia, dai vestiti sgargianti che portano sotto, che tradiscono il nero, dai tacchi che spuntano e che sollevano i lembi dei loro abaya. Il velo, come insegna anche la storia, é prima di tutto un segno distintivo, di identitá. Le mogli di Maometto, nella prima epoca islamica, non lo portavano; quella di coprirsi é infatti una tradizione tribale, non religiosa. Il velo, acriticamente considerato in Occidente uno dei principali simboli dell’Islam, é in realtá un’usanza culturale dei popoli conquistati da Maometto nella penisola arabica, dunque un’antichissima tradizione pre islamica di queste zone. Non solo: le mogli di Maometto erano libere di lavorare (come Khadija, la piú anziana, che era commerciante di pelli) e perfino di partecipare alle battaglie (come Aisha, la sposa piú giovane, che viene descritta con il vestito sollevato e le gambe scoperte per correre a soccorrere i feriti). E’ piú tardi, sotto la dinastia degli Abbasidi (dal 750 al 1250, oltre cento anni dopo la morte di Maometto) che vennero introdotte nell’Islam restrizioni per le donne e che cominció a delinearsi la legge islamica, la Sharia.

Non puó essere certo un velo, dunque, il simbolo dell’oppressione femminile. Né tantomeno l’ostacolo all’emancipazione delle donne musulmane. Che stanno portando avanti quella che mi piace chiamare “la rivoluzione dei rossetti”. Non solo perché i loro volti sono sempre truccatissimi, ma perché stanno conquistando i loro spazi rispettando le loro tradizioni, seguendo i loro tempi e anche la loro religione. E affermare l’identità musulmana, coprendosi col velo, non significa affatto rinunciare alla propria realizzazione e ai propri diritti. Al contrario, il velo crea lo spazio, la dimensione per affermare se stesse, in tutti i campi, professionale o sociale. Ora mi rendo conto del mio errore, frutto di una visione europocentrica del mondo femminile: fare coincidere la donna velata con l’integralismo religioso, l’oppressione, mentre la donna s-velata con l’emancipazione, la laicità, la libertá. Sono schemi dai quali bisogna liberarsi. Le donne, da questa parte del mondo, fanno eccome le loro rivoluzioni. Ma con il velo in testa.