Uno spettro si aggira tra le stanze ministeriali e tra le righe degli editoriali dei maggiori quotidiani italiani. È lo spettro del passatismo.
Quando si parla di scuola, infatti, riemerge sistematicamente il mito dell’epoca d’oro della scuola italiana e quello delle virtù perdute (qualità, rigore, merito, disciplina e via rimpiangendo).
Signori, vi do una notizia: non c’è mai stata un’epoca d’oro per la scuola italiana.
Al momento del varo della Costituzione repubblicana che fissava per tutti l’obbligo d’istruzione ad “almeno 8 anni” (art.34), nella fascia di età 11-13, quattro italiani su cinque – ripeto: l’80% dei ragazzini italiani – non erano tra i banchi di una scuola media. Insomma, la nostra Costituzione era piuttosto un manifesto programmatico e non una ratificazione dello stato di fatto, come invece è accaduto per la recente estensione dell’obbligo a 10 anni.
Dal grafico 1 si vede, che delle generazioni degli esegeti del ritorno al passato, solo uno su quattro è alla fine arrivato al diploma di maturità. Mentre la maturità è alla portata di oltre tre studenti su quattro per le ultime generazioni.
Insomma, quella che era semplicemente una scuola elitaria – o “di classe” come si sarebbe detto un tempo – spesso viene rimpianta come un modello di scuola efficace. Non a caso si sente spesso inveire contro il ’68 e le sue malintese istanze di democratizzazione che si ritiene abbiano prodotto solo disastri.
A parte il fatto che la chiave della democratizzazione, almeno in termini di conseguimento di titoli, è da rinvenire piuttosto nell’introduzione della scuola media unica e nell’abolizione dell’avviamento (l’early traking italiano) che datano 1962, l’idea che debba esserci necessariamente un trade-off tra “eccellenza” ed “equità”, non è solo concettualmente fallace, ma è anche clamorosamente smentita dai dati.
Un recente studio di Richard B. Freeman, Stephen Machin e Martina Viarengo compara i sistemi scolastici di oltre 50 Paesi e la loro performance nella rilevazione TIMSS 2007 (apprendimenti in Matematica e Scienze a 13 anni) e smentisce la tesi per la quale sistemi scolastici di qualità siano inevitabilmente i più iniqui. Anzi, è vero il contrario: i paesi con i risultati migliori (punteggi più elevati) sono anche quelli che mostrano differenze più contenute tra ragazzi (dispersione dei punteggi minore).
Ma lo stesso è vero anche in Italia. Nel grafico 2 è riportata la collocazione delle regioni italiane in base ai risultati ottenuti da campioni rappresentativi dei propri studenti quindicenni alle prove Ocse-Pisa 2009 in reading (lettura e comprensione del testo). È evidente che le regioni che hanno le quote più ampie di studenti nella fascia di eccellenza (livelli 5 e 6 di competenze), sono le stesse che sono riuscite a minimizzare la quota di studenti sotto la soglia minima di competenze (livelli 1 e 2). Dunque, eccellenza ed equità nei fatti vanno mano nella mano e non sono due opzioni alternative. Dove c’è qualità, questa è diffusa e non ad appannaggio di una singola categoria di studenti.
Insomma, non esiste una scuola da rimpiangere. E di certo non si può rimpiangere una scuola elitaria e iniqua. Ad ogni sistema scolastico è richiesto di confrontarsi con le sfide del proprio tempo. E, come detto, quelle attuali si chiamano divari negli apprendimenti su base territoriale, socio-culturale, di genere, etnica, digitale, ecc. Dunque, in parte, sfide inedite rispetto al passato. E riproporre modelli superati per affrontare sfide rinnovate o del tutto nuove non è mai una buona strategia.