Il piccolo Cyril scappa. Scappa dal centro di accoglienza dove vive, per andare alla ricerca di un padre che dichiara apertamente di non volerlo più. Scappa da Samantha, la giovane parrucchiera che si è offerta di fargli da “famiglia d’appoggio” ospitandolo per i weekend. Scappa da un amichetto educato e dalla sua proposta di andare al cinema insieme. Scappa dalla polizia dopo aver commesso un crimine e scappa dalla vittima del suo crimine decisa a farsi giustizia da sola.
Scappa su e giù per le scale, sbattendosi le porte alle spalle, scavalcando i cancelli, chiedendo prestazioni super alla sua adorata bicicletta, mentre la macchina a mano dei fratelli Dardenne sottolinea le sue fughe come in un thriller. Il ragazzo con la bicicletta, a suo modo, è proprio questo: un thriller che punteggia con vera tensione le corse disperate del giovane protagonista e alla fine, nell’ultima ricerca di un rifugio, fino in cima a un albero, lo manda incontro al rischio della morte in una rovinosa caduta. Eppure in quell’istante, mentre i suoi inseguitori osservano il corpo inerme di Cecyl e progettano menzogne per far apparire la disgrazia come un banale incidente, il ragazzino si rialza incolume e se ne va, verso la fine del film, senza chiedere nulla e stavolta camminando, perché quella è stata la sua ultima fuga.
Ovvero, quando il giallo stava per cominciare, quando la storia era pronta a trasformarsi in matassa di indizi, detection, vendette, la storia finisce. Perché Il ragazzo con la bicicletta è un proto-thriller, sì, ma ispirato alla vita vera (che significa verità ma poco centra con il realismo) che non pretende intrecci perfetti, circolari, matematici. Che avanza a blocchi, a intrusioni pronte a svanire nel nulla, senza chiedere conto allo sceneggiatore di una costruzione poco geometrica.
Nel proto-thriller dei Dardenne non c’è nemmeno un Mostro, a inseguire Cecyl: ci sono persone normali, spesso buone (gli educatori, Samantha) o al massimo preda di umano senso di rivalsa. Perché lo inseguono è chiaro, perché lui scappa anche, ma il film non si preoccupa mai di spiegarlo didascalicamente. Non c’è l’antagonista e non c’è, almeno in apparenza, la chiusura del cerchio.
Proprio qui sta la marcia in più de Il ragazzo con la bicicletta rispetto al cinema di consumo: non c’è bisogno di spiegare. Che fine ha fatto la madre di Cecyl? Nessuno la cita, nessuno ne parla, semplicemente non esiste, eppure non sentiamo alcun bisogno di saperlo. Perché il padre è così fermamente, disumanamente deciso a non aver più nulla a che fare col figlio? Perché è così e basta, “non ce la faccio” – dice l’uomo, e ringraziamo i Dardenne per averci risparmiato qualunque monologo illustrativo delle sue ragioni profonde. Perché Samantha accoglie il ragazzo in casa sua? Altri (autori) si sarebbero preoccupati di stabilire che lo ha fatto perché non può avere figli, o perché ha perduto un figlio problematico come Cecyl. E invece niente: lo accoglie perché può accadere che lo faccia, punto e basta. Questa è l’autenticità del cinema e della scrittura cinematografica d’autore che i Dardenne esaltano ancora una volta al massimo livello: rendere le cose inattese eppure coerenti, e senza la necessità di giustificarle. Scompaginare, destrutturare, amare l’imperfezione, come nella vita. E allo stesso tempo tenere alta la tensione, come in un thriller di genere.