La piccola Marta, protagonista di Corpo Celeste, vede da una finestra la scena madre del film: la sua catechista chiude in una busta di plastica la nidiata di gattini che era finita accidentalmente nel solaio della parrocchia, stringe rabbiosamente il nodo del sacchetto come fosse colmo di spazzatura puzzolente e lo affida all’aguzzino che lo getterà da un ponte. Nello sguardo di Marta non riesce neppure a comparire la rabbia, perché il suo spazio cerebrale è già totalmente occupato dall’incredulità. Sì, la catechista era già epidermicamente insopportabile, ma non si poteva immaginarla capace di un gesto tanto crudele.
Marta è allibita, più di altre volte ma non per la prima volta, perché sulla sua espressione perplessa si gioca buona parte dell’esordio alla regia di Alice Rohrwacher, sorella della più celebre attrice Alba. E la sceneggiatura è astuta dall’inizio nell’incoronare come sguardo puro quello (stupito) della sua giovane protagonista: Marta è tornata in Calabria dopo aver trascorso quasi tutta la (ancora breve) vita in Svizzera, e basta il nome di quello stato per attivare nello spettatore l’associazione con il concetto di neutralità. Poco importa quale educazione la piccola abbia ricevuto all’estero, la sua posizione è automaticamente definita come neutra e quindi oggettiva, credibile.
Quando inizia il corso di catechismo pre-cresima, la ragazzina non ha pregiudizi e nemmeno glieli somministra una madre piuttosto indifferente alla religiosità di sua figlia. Ma lo stupore fatalmente arriva: Marta non ha bisogno di dircelo, anzi, parla sempre meno fino ad abbandonarsi a un semi-mutismo. Ci lascia solo il suo sguardo che si posa sulle pratiche parrocchiali: il quiz multimediale in stile Chi vuol esser milionario? usato come strumento didattico durante le lezioni, la canzone Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta composta ad hoc per il giorno della cresima, lo schiaffo ricevuto dalla catechista per aver riso a un suo scivolone sul pavimento della chiesa.
Gattini a parte, questa gente di fede non fa nulla di così terribile. Sì, il prete si macchia di un po’ di campagna elettorale illegittima, ma, per intenderci, quando Marta è costretta a fermarsi a far pipì on plain air, non si apposta dietro un muro a spiarla ma educatamente va ad attenderla in chiesa. Eppure, Marta è sempre allibita. Non c’è bisogno della pedofilia per sconvolgerla intimamente, come non c’è bisogno che la ragazzina ci dica nulla affinché possiamo capire il suo stato d’animo. Nemmeno noi, in fondo, abbiamo bisogno di dire nulla, se non che una tredicenne mentalmente aperta che ha sempre vissuto in Svizzera, che torna in Calabria e frequenta un corso di catechismo, non può che restare ammutolita.
Marta non è un’eretica. L’interrogativo della fede se lo era posto sinceramente, esplicitato da un commensale che prima di avventarsi sul suo piatto di pesce aveva esclamato “Che sia merito di Gesù, o che sia merito del mare, brindiamo a questi calamari!”. La risposta metaforica, per la protagonista, arriva quando il grande crocefisso che doveva decorare la chiesa il giorno della cresima cade da un ponte (sì, più o meno come i gattini) e finisce in acqua in balia delle onde. Pochi dubbi su quale delle due forze, il mare o Gesù, stia dimostrando la forza maggiore. Marta ancora una volta non lo dice, ma ha trovato lì la sua risposta definitiva, dopo che il suo sguardo allibito in chiesa ne aveva date diverse (di risposte) anche a noi.