La globalizzazione cambia di passo. Non è più quel cammino lineare e privo di contraddizioni quale si intravedeva dopo la caduta dell’ impero sovietico, il quieto emergere della Cina come potenza di contrappeso quale era sta immaginata da Kissinger ( vedi ora il Suo recentissimo “On China”…) e il dispiegarsi del mercato a cui non avrebbe potuto mancare la costruzione di democrazie laddove il mercato medesimo ne aveva più bisogno. Ossia negli Stati del Golfo, in quelli dell’ Asia Centrale, a imitazione della raggiunta stabilità democratica ed economica dell’ America Latina. Senonchè tutto è andato e va diversamente: il mercato si dispiega tra mille faglie e crepe e la dimenticata teoria di Steve Rokkan sui cleveages di cui il mondo intero soffriva e soffre nei processi di cambiamento torna alla luce con una potenza inusitata. Prima era il terrorismo: oggi è quest’ ultimo che si alloca in una faglia che rischia di dividere il mondo nell’ area di crisi a più alta intensità disgregatrice. Laddove risiedono le riserve energetiche da idrocarburi fossili più dense del pianeta. Una faglia che corre spaccando in due il Nord Africa e giunge sino al Golfo Persico e rischia di disgregare il Medio Oriente e l’ Asia Centrale come un telo teso e tagliente. A un capo di esso vi l’ Arabia Saudita e la sua egemonia sunnita e all’ altro capo l’ Iran e la sua ideologia sciita: entrambe a macchia di leopardo dividono , frastagliano, contrappongono tutti gli Stati del Golfo, del Medio Oriente, dal Libano alla Persia. La Siria rischia di disgregarsi e se ciò accade la faglia potrebbe aprirsi trascinando in sé la monarchia ascemita, e anche quella alauita( oltre naturalmente Israele): Giordania e Marocco sono i “corpi sacrali”, con l’ Arabia Saudita, di un mondo che si regge su equilibri delicatissimi. Essi sono stati riprodotti non solo dal ruolo stabilizzatore della Siria, ma anche da quello decisivo dei militari egiziani( l’ Egitto è la Germania dell’ Africa nord sahariana). Ciò è stato dimostrato con eloquenza dallo svolgersi della crisi politica da mobilitazione di massa delle giovani classi medie in astinenza di futuro che hanno impersonificato la scena dalla “rivolta araba”. Anche in Tunisia, inizio della scintilla che ha incendiato la prateria, si è svolto lo stesso processo, con l’ emergere del ruolo, invece che dei militari, delle forze di sicurezza che sono intervenute per garantire anche in quel caso una successione bonapartista alla crisi di legittimazione del potere, in questo caso laico e non sacrale. La crisi libica è un’ indiretta conseguenza di questo generale processo, con distintività evidenti per il mancato state and nation building di quell’ aggregato tribale dominato bonapartisticamente da Gheddafi dopo il crollo per mano armata della monarchia senussita. Un equilibrio tribale che non si è ancora ristabilito e che solo le potenze occidentali potranno ricostruire. Il patto militare anglo francese va letto in questa luce a fronte di un relativo disimpegno militare occidente degli USA. In effetti, quel patto è l’ anteprima dell’ evoluzione militare e strategica di una strategia non europea, ma duopolistica di lotta per il controllo del vero oggetto del contendere del futuro: l’Africa subsahariana. La regione dei Grandi Laghi è il cuore di tenebra di Conrand e il cuore energetico e nutrizionale e industriale del futuro. Circondata dagli stati che fanno corona al nuovo Congo dopo la “prima guerra mondiale africana” combattuta appunto per ridefinire post-colonialmente la regione del Grandi Laghi, la questione congolese diverrà la questione del futuro e il conflitto con una Cina già attivissima e con strategie di penetrazione tuttaffatto diverse da quelle coloniali di un tempo e post- coloniali di oggi andrà contenuto e per questo il tema va studiato con attenzione. I prossimi cinquant’ anni della storia economica mondiale saranno la storia dell’ emergere dell’ Africa Nera: chi eserciterà con gli africani il dominio su quelle terre, dominerà il mondo.
Le aeree a rischio mondiali non si fermano qui, certamente. Tralasciamo quella già evidente ma che sta solo emergendo agli occhi degli osservatori più disincantati, ossia il conflitto prossimo nel e per il mar della Cina e poi l’ Oceania, con un’ Armata Rossa Cinese sempre più aggressiva.
Rivolgiamoci all’ altro grande continente che donava solo splendide speranze e che ora, invece, manifesta acuti rischi strategici in primis, anche in questo caso, in campo energetico. Penso all’ America del Sud. Anche qui si tratta di cleveages e di faglie che sono ora socio politiche e che hanno per termini di confronto o il ritorno alle politiche di “crecimiento hacia a dentro” oppure il continuare il “crecimiento hacia a fuera”. Ossia o continuare le politiche di apertura dei mercati e di riforme sociali, il cui modello virtuoso è il Brasile di Cardoso e di Lula. Oppure ritornare all’ oil nationalism con le nazionalizzazione energetiche e i protezionismi così come si delinea chiaramente in Bolivia , in Ecuador e in Argentina. Se la crisi del partito APRA in Perù si confermerà, anche questo paese seguirà la faglia del ritorno all’ indietro, con conseguenze che possono essere imprevedibili per tutto il mondo e per l’ industria energetica in particolare. Questo in un contesto in cui il declino nord americano non è ineluttabile come pensano alcuni, ma è trasparente e visibile più di un tempo per via della crisi economica e delle incertezze strategiche di quella grande potenza che deve nuovamente scegliere a qualsiasi costo di porsi a guida dell’ occidente. Certo: a essa manca quella relazione transatlantica europea che è essenziale per garantire l’ordine mondiale. Gli USA debbono trovare un’ altro pilastro strategico da affiancare a sé stessi: l’ Europa non può più esserlo unitariamente. Di qui l’ importanza del confronto con la Cina e dell’ alleanza strategica con i paesi emergenti che vogliono continuare nella via virtuosa della globalizzazione.
15 Giugno 2011