Tra le varie categorie di lavoratori non indigeni che rubano il lavoro a quelli padani, da qualche tempo la Lega ha deciso di prendersela con gli insegnanti meridionali. E’ noto, nel settore scolastico importare forza lavoro dall’estero è per ovvie ragioni non facile e dunque la Lega può tornare al suo antico amore: la guerra ai terroni. Il provvedimento varato nel 2009 dal Ministro Gelmini che stabiliva la riapertura delle graduatorie a esaurimento su base provinciale con inserimento in coda degli insegnanti provenienti da altre province, altro non era che un tentativo maldestro di compiacere le istanze leghiste. E il caos conseguente alla prevedibile dichiarazione di illegittimità dello stesso da parte della Consulta è il prezzo che tutto il sistema scolastico paga alle ragioni di una politica che non vuole tenere conto delle condizioni strutturali del nostro paese.
Quello che con toni spesso razzisti la Lega ci ricorda, è che gli insegnanti non sono poi così diversi dagli altri lavoratori. Tant’è che vanno a cercare l’occupazione dove è possibile trovarla.
Nel grafico qui sotto, tratto da uno studio Banca d’Italia in parte pubblicato nel Rapporto sulla Scuola 2009 della Fondazione Giovanni Agnelli, vediamo che i flussi migratori sono essenzialmente unidirezionali. Gli insegnanti del sud si spostano al centro-nord mentre il contrario non è quasi mai vero.
Ma se la scuola è un servizio pubblico presente su tutto il territorio italiano per quale ragione si rende necessario un tale esodo?
È presto detto: come in ogni settore, anche in quello del lavoro scolastico esistono condizioni strutturali e di mercato che creano squilibri e necessità di riallineamento.
La prima condizione di struttura è la demografia: la domanda di servizi scolastici è rappresentata dagli studenti presenti sul territorio, ma nei 10 anni che vanno dal 1997 al 2007, il numero di individui in età scolare è diminuito del 9% al sud, ed è aumentato al centro e al nord rispettivamente del 4% e del 12%. La ripresa nell’Italia centro-settentrionale è dovuta essenzialmente alla presenza di prime e seconde generazioni di giovani immigrati. I significativi flussi migratori degli ultimi vent’anni e le conseguenti regolarizzazioni di massa (che danno stabilità e prospettiva ai progetti di vita dei lavoratori stranieri) comportano ricongiungimenti familiari e picchi nei tassi di fertilità che alla fine si traducono in un maggior numero di “nuovi italiani” e dunque nuovi studenti.
Ma perché la maggior domanda di insegnanti al nord non può essere soddisfatta da forza lavoro locale?
Per una semplice ragione: anche per gli insegnanti esiste una “crisi delle vocazioni” ma, a differenza del sacerdozio, nella scuola la crisi è indotta da più semplici ragioni economiche.
Qui di seguito riportiamo il differenziale salariale a 5 anni dal conseguimento del titolo tra laureati che abbracciano la professione dell’insegnamento e laureati nelle stesse discipline che intraprendono altre strade.
Si osserva come questo sia molto elevato per i laureati del comparto tecnico-scientifico, mentre è abbastanza contenuto per il comparto linguistico-letterario. I primi hanno opportunità lavorative alternative significativamente più redditizie dell’insegnamento. Questa ragione, sommata a quella della precarietà – un insegnante sopporta in media in Italia 10-11 anni di precariato prima dell’inserimento in ruolo – determina il fatto che, al nord, le graduatorie per l’immissione in ruolo nelle materie tecnico-scientifiche siano in molti casi esaurite o in via d’esaurimento (e rendono necessaria l’importazione di altra forza lavoro), mentre quelle delle materie linguistiche-letterarie presentino code d’attesa molto lunghe, che in altre zone d’Italia diventano addirittura chilometriche.
Alcuni direbbero che la ragione della crisi delle vocazioni potrebbero avere a che fare anche con il presunto calo della considerazione sociale per il ruolo degli insegnanti (deficit di status). Ma questo è in parte una conseguenza del relativo svantaggio economico e lavorativo.
Lo squilibrio tra domanda e offerta di insegnanti nelle scuole del nord, dunque, genera la necessità di accogliere nelle graduatorie insegnanti provenienti da altre aree del paese. Il fatto che questi si sobbarchino anche l’onere della migrazione a fronte di trattamenti economici non privilegiati è di per se rivelatore delle inesistenti prospettive occupazionali nelle loro regioni d’origine. Ma il problema della Lega è che essi arrivano al nord con punteggi e anzianità spesso più elevati di quelli dei pochi insegnanti autoctoni in lista d’attesa, sopravanzandoli.
Esistono dunque insegnanti settentrionali le cui aspettative d’ingresso in ruolo sono frustrate dai nuovi arrivi. È un problema serio che però non chiama in causa questioni relative ai livelli di qualificazioni degli insegnanti (la scuola del nord è piena di insegnanti meridionali eppure è quella con risultati migliori) o alle presunte discontinuità didattiche causate dalle domande di trasferimento degli insegnali meridionali desiderosi di tornare verso lidi più caldi (0,6% delle domande accettate su base annua).
Ma ha a che fare, come detto, con fattori strutturali e in parte non malleabili (sviluppo economico e demografia nel mezzogiorno) e con gli incentivi necessari ad attrarre giovani “padani” nella professione insegnante. Tuttavia, se migliorare il trattamento economico degli insegnanti o ridurne la precarietà di certo attrarrebbe più giovani settentrionali nella professione, al contempo finirebbe con l’esasperare i flussi migratori (migliori condizioni di reddito e di lavoro allevierebbero i costi della migrazione). Dunque, agire solo su questa leva non darebbe ai leghisti i risultati sperati.
Il punto cruciale, per uscire da un’ottica di mero antimeridionalismo e abbracciarne una più attenta alla qualità del servizio, è come si determina il match tra singolo insegnante e singola scuola. Il sistema rigido delle graduatorie iper-regolamentate che da quando non si tengono più concorsi è peraltro fortemente slegato dalla qualità professionale, nella pretesa di trattare tutti allo stesso modo in base a criteri “oggettivi”, determina anche grandi iniquità. Ad esempio, un brillante giovane precario sarà sempre discriminato rispetto a un vecchio cattivo insegnante.
Un sistema più flessibile dovrebbe prevedere che, a fronte di una certificazione professionale riconosciuta e con standard qualitativi identici su base nazionale, gli insegnanti possano scegliere le scuole in cui desiderano lavorare e le scuole possano scegliersi gli insegnanti da integrare nella propria squadra. Questo consentirebbe di esaltare il ruolo dell’autonomia scolastica (sancita dalla costituzione) e sposterebbe il focus dai punteggi e dalle provenienze alla mera professionalità degli insegnanti con un guadagno complessivo per l’intero sistema.
Ma si tratta certamente di un argomento complesso sul quale varrà la pena tornare.