Che Dario Argento stesse perdendo qualche colpo era noto da alcuni film a questa parte, ma che li avesse persi tutti è notizia recente. O meglio, nemmeno troppo recente visto che la sua ultima opera (opera?) Giallo, prima che qualcuno trovasse il coraggio di distribuirla al cinema (seppur su scala ridotta), era già stato mostrata agli addetti ai lavori al Festival di Cannes 2009 ed era già uscita in dvd nel 2010. Un percorso commerciale unico per un film a sua volta (e a suo modo) unico.
Che potesse trattarsi di uno scherzo era chiaro già dalla locandina, con la discutibile citazione del celebre profilo di Hitchcock e la spudorata dicitura “Il capolavoro di Dario Argento”, ma dopo la visione lo scherzo risulta persino di cattivo gusto. E la presenza nel ruolo del protagonista di Adrian Brody, che dopo aver aderito al progetto per ragioni tutte sue è rinsavito cercando di bloccare la distribuzione del film con una causa legale che si appellava all’inadempienza contrattuale del produttore, non fa che rendere l’esperienza dello spettatore ancora più grottesca.
L’uso della colonna sonora, gli angoli di inquadratura retrò e gli effetti speciali al risparmio lasciano credere durante prime sequenze che il regista abbia (ri)fatto un film adatto a epoche passate, un prodotto di genere piuttosto vintage, e invece il seguito della storia costringe a una rettifica: Giallo sarebbe stato pessimo anche negli anni 70.
Argento partorisce uno dei “cattivi” più ridicoli della storia del cinema, peraltro assente ingiustificato (il cattivo, non il cinema, o forse entrambi) nel climax del film, essendosi premurato di morire goffamente già con un paio di sequenze di anticipo.
L’implacabile serial killer è un incrocio fra un rapper scemo, Riccardo Cocciante dopo essersi schiantato a cento all’ora contro un autobus e l’ex cestista spagnolo Roberto Duenas (si prega chi non lo avesse in mente di ricorrere a Google Immagini). Fa la voce da orco, la risata satanica, è triste per essere brutto e si masturba con il ciuccio in bocca davanti alle fotografie delle sue vittime sfigurate (perché non farlo live, a questo punto?).
Più tragicomico di lui c’è solo l’ispettore che lo insegue (Adrian Brody, appunto), che si vanta dei suoi metodi di lavoro “particolari” salvo non mostrarci mai quali siano, a parte farsi tradurre la testimonianza registrata di una giapponese in fin di vita dal pescivendolo al mercato anziché da un interprete professionista.
Il meglio di sé il prode detective lo dà dopo aver scoperto, grazie alla traduzione medesima, come il tratto distintivo del killer sia avere la pelle gialla. Rivoltosi a un medico (strano: perché non andare dal macellaio?) per sapere quali malattie possano generare il sintomo in questione, alla sorprendente risposta (l’epatite, o la cirrosi) il nostro pone al dottore una nuova domanda geniale: ma queste malattie possono necessitare di cura e assistenza? No, certo, l’epatite si cura con la spremuta d’arancia.
Sulla scorta delle preziose scoperte, l’ispettore trova il suo nemico. Dove? In un banale ospedale, perché l’implacabile assassino vi si reca periodicamente, con lo stesso identico vestito che indossa quando rapisce le sue vittime, per le cure di cui non può fare a meno. Eppure l’ispettore ci deve ancora deliziare con il suo atletismo. Dopo aver inseguito il killer giù per le scale della clinica, gridando “largo largo” a persone che si erano già educatamente spostate, riesce a farselo scappare inciampando in un carrellino delle pulizie nonostante il cattivone sia persino claudicante.
Ma non è finita. Passa qualche scena e l’eroe, dopo aver finalmente ucciso il suo avversario proprio nel momento meno opportuno (quando sarebbe servito vivo perchè confessasse dove sia rinchiusa, ancora viva, la sua ultima preda), fallisce clamorosamente anche l’intuizione decisiva e non trova la ragazza rapita.
Finale triste? No, perché – contraddicendo tutti i capisaldi della narrazione cinematografica contemporanea che vorrebbero il protagonista (e la sua presa di consapevolezza definitiva) chiamato a determinare lo scioglimento della storia – a trovare la ragazza sarà un agente qualunque (personaggio mai visto prima) e per puro caso. Sì, forse era davvero uno scherzo.