Prende il via la 68esima Mostra del Cinema di Venezia. Scorrendo l’elenco dei 21 lungometraggi ammessi in concorso, proviamo a individuarne cinque che, per varie e diverse ragioni, sembrano degni di particolare attenzione.
Inevitabile subire a priori il fascino di A Dangerous Method, il terreno su cui David Cronember si lascia cadere dichiaratamente nella spirale psicanalitica, rappresentando il confronto-scontro tra Sigmund Freud e Carl Jung alla vigilia della prima guerra mondiale. Non solo il regista di Videodrome e Spider si cimenta in un’insolita ricostruzione storico-biografica (che nella sua filmografia ha l’unico, parziale precedente di M.Butterfly), ma regala una svolta inattesa all’evoluzione di registro stilistico-narrativo intrapresa con i recenti History of Violence e La promessa dell’assassino, dove l’esplorazione quasi tattile dei corpi e dei loro mutamenti lasciava spazio a una (relativa) ricerca di sobrietà e attenzione alla trama in quanto corpo da modellare (evolvere) essa stessa. Da A Dangerous Method ci si aspetta che la Nuova Carne di Videodrome torni a essere pienamente percebile pur se relegata nella psiche dei personaggi, ovvero senza ricorrere alle escrescienze e neoplasie che il regista sembra aver ormai escluso dal proprio tavolo di lavoro.
Seduce (potenzialmente) anche la vicenda messa in scena da Roman Polanski in Carnage, adattamento dell’opera teatrale Il dio della carneficina da cui si spera che il regista abbia ereditato anche l’humor nero. Due coppie di genitori si ritrovano in soggiorno per regolare amichevolmente gli esiti di una scazzottata fra i rispettivi figli, ma l’incontro diventa l’occasione per un’escalation di rivelazioni e conflitti fino alla resa dei conti. Il minimalismo della trama, insieme all’unità spaziotemporale, lascia sperare che il regista si sia ricondotto a una dimensione arthouse, libera dall’ansia di rendere commerciabile il prodotto che aveva sporcato alcuni dei suoi lavori recenti. E la durata dell’opera (79 minuti) conferma il tentativo di tornare a fare cinema con poche cose, sopratutto se pensiamo che nessuno degli ultimi quattro film di Polanski durava meno di 125.
Fiducia incondizionata a Todd Solondz, dopo che nell’ultimo Perdona e dimentica ha ritrovato l’ironia disturbante, indigeribile, di Happiness, rinunciando ai virtuosismi apprezzabili ma troppo elitari di Palindromi. In Dark Horse, Solondz racconta la storia di un trentenne affetto da sindrome di Peter Pan che prova a liberarsi dai suoi giocattoli quando si innamora di una ragazza colpita dalla stessa patologia. Di più non si sa, ma se i dialoghi e la composizione dell’immagine saranno all’altezza dell’autore c’è spazio per una più che piacevole montagna russa socio-antropologica.
Buone notizie si attendono anche dallo svedese Tomas Alfredson, che nel 2008 si è guadagnato la stima della critica, e non solo, esordendo alla regia cinematografica con Lasciami entrare, darkissima, drammaticissima storia di un’adolescente vampira e del suo innamorato umano. Nell’era deprimente di Twilight, il valore cinematografico dell’opera di Alfredson aveva rincuorato tutti circa la possibilità di attingere ancora, riscoprendone la componente romantica, al serbatoio narrativo vampiresco. A Venezia il regista cambia genere e svolta verso la spy story, ma conserva il proprio spirito decadente: La talpa racconta la vicenda di George Smiley, agente segreto britannico in pensione chiamato a smascherare un traditore.
Più borderline è l’idea che fonda The Exchange: si può rimanere sconvolti rientrando a casa a un’ora diversa dal solito, vedendo i propri oggetti quotidiani, il tavolo, le sedie e il resto, sotto una luce diversa? Sì, si può. O almeno questa è la tesi del regista israeliano Eran Kolirin, che qualche anno fa si fece notare all’estero per l’apprezzata commedia La banda, finestra commovente (ma con il sorriso) aperta sul confronto (non armato, in questo caso) arabo-israeliano. Dall’ironia sociologica di quell’opera al viaggio quasi metafisico di The Exchange, siamo di fronte a un altro autore (vero) che ha il coraggio di reinventarsi come misura preventiva, prima di stancare e prima della terza età: quanto basta per meritare attenzione.
Di nomi grossi, fra i registi in concorso al Lido, ce ne sarebbero svariati altri (anche più noti di alcuni fra quelli citati sopra) che tuttavia per una ragione o per l’altra non generano altrettanta attesa. George Clooney presenta un The Ides of March, storia di sesso e potere sullo sfondo delle primarie in Ohio, che pare fin troppo modellato sulla sua faccia. Philippe Garrel specula sul nudo integrale della Bellucci. Abel Ferrara (il cui 4:44 Last Day on Earth desterebbe anche la curiosità di scoprire come un regista tanto estremo immagini la fine del mondo) deve prima combinarne almeno una giusta, dopo troppi pasticci, per riguadagnarsi l’attenzione che merita(va). E così via. Fra gli italiani, più che Cristina Comencini (in concorso con un Quando la notte la cui sinossi ricorda in modo preoccupante il suo precedente e discutibile La bestia nel cuore) sono Emanuele Crialese e Gian Alfonso Pacinotti (in arte Gipi) a legittimare qualche speranza patriottica. Il primo contrappone anche semanticamente l’opera Terraferma al Nuovomondo con cui si era fatto apprezzare a Venezia cinque anni fa: dal mito del viaggio a quello dell’isola. Il secondo (autore di fumetti) è all’esordio da regista e porta sul Lido L’ultimo terrestre, una fantascienza italica popolata di alieni: visti i presupposti simpaticamente sgangherati, se ha avuto l’onore di essere ammesso in concorso il film deve nascondere davvero qualcosa di straordinario.